Concerti in tutto il mondo, libri e un album dedicato alle eroine dimenticate della tradizione lirica. E poi la politica e la leadership. Dialogo a tutto campo con l’artista e direttore d’orchestra. «Rivendico il diritto di non allinearmi»

“Fortissima” hanno titolato le Éditions Payot la traduzione francese del suo ultimo libro, “Le sorelle di Mozart”. Folgorante attributo di un’intensità che scavalla musica e partiture. E descrive un modo di muoversi, nella vita e nel lavoro: a 32 anni, Beatrice Venezi, nata a Lucca, direttore d’orchestra tanto più fedele alla tradizionale nomenclatura maschile quanto più numerose le reazioni provocate, si muove rapidissima da un’apparizione televisiva a un palcoscenico internazionale, da uno spot a Spotify, da un memoir a un nuovo album, dal red carpet di Cannes al palco allestito davanti a Buckingham Palace per celebrare la regina Elisabetta II. E con un piglio da numero uno esercitato nello spietato microcosmo che è un’orchestra, tira dritto: sulle diatribe sessiste e sull’essere diventata un emblema accattivante della destra al potere. Rivendicando un’immagine glamour e una vivace presenza sui social. «È stato un anno davvero intenso, di soddisfazioni. Ma soprattutto di grandi prospettive. Sono fatta così: non riesco a crogiolarmi in ciò che vivo, continuo a guardare avanti, a ciò che deve essere fatto».

 

Il coraggio, la resilienza, la tenacia, la forza di volontà. Con “Heroines”, il suo ultimo album, ha compiuto un viaggio tra le eroine della tradizione lirica e tra esempi diversi di femminilità. Quale di queste qualità le appartiene di più?
«Un po’ tutte. Nell’album, ma anche nel mio ultimo libro, “Le sorelle di Mozart”, che parla di compositrici dimenticate, volevo rendere omaggio a donne che hanno avuto un ruolo specifico e forte nella musica. Un modo per contribuire a un cambio di narrazione della storia femminile. Si parla sempre di eccezioni alla regola, invece di storie di successo di donne ce ne sono tante non sufficientemente raccontate. È importante portarle alla luce, perché possono creare una nuova consapevolezza, soprattutto tra le più giovani, del nostro valore nella storia».

 

Giovanna D’Arco, Isotta, Evita, la Regina di Saba... C’è, tra queste figure, una che sente più “sorella”?
«Forse Ildegarda di Bingen, perché ribalta l’idea del Medioevo come periodo oscuro e di grandi privazioni. Dimostra, al contrario, di essere una donna liberissima, nella composizione, nel pensiero, nel parlare in pubblico, nell’essere consigliere di Federico Barbarossa e nel redarguirlo addirittura: la sua è una storia estremamente moderna. Un’altra figura che ho sentito vicina è quella di una compositrice francese, Louise Farrenc, che nell’Ottocento lottò per la parità salariale, e la ottenne. E poi ci sono le eroine dell’opera, che mi fanno sempre riflettere. La prima di tutte è Lady Macbeth di Shostakovich, vessata, umiliata, molestata per tutta la vita, che a un certo punto decide di conquistare la sua libertà. E lo fa attraverso l’omicidio, ben consapevole della reazione a catena che potrà scatenare, ma abbracciando lo stesso la sua scelta, nel modo più amorale possibile. O immorale: interessante la nuance dell’italiano, no?».

 

Sprovvisto di morale. O apertamente contro…
«Ecco: io ho sospeso il giudizio morale rispetto a queste eroine. Le donne sono sempre le prime a essere giudicate sotto il profilo morale, e a giudicarsi tra di loro. Io, sia che si parli di Giovanna D’Arco, eroina per eccellenza, che di Evita Perón che lotta per il suffragio universale, di Lady Macbeth o di Medea che uccide i figli, ho sospeso il giudizio. E evidenziato i tratti comuni: la determinazione, il coraggio, la forza di uscire dal coro. Anche quando sanno perfettamente a quali conseguenze porteranno le loro azioni, queste donne hanno il coraggio di andare avanti».

 

Oggi è una donna di successo. È più contenta per sé o per ciò che questo successo può rappresentare per altri giovani artisti?
«In questo momento ho la possibilità di rappresentare tante cose di cui sono fiera: prima di tutto, l’italianità in contesti internazionali. Ma rivendico anche l’essere contro il sistema, l’accademia, contro quell’atteggiamento elitario che cerca di tenere fuori le novità. Detta in parole povere: io non vengo da una famiglia di musicisti, cosa che spesso succede nel mio ambiente, pieno di “figli di”. E non discendo neppure da quei grandi direttori d’orchestra che considerano i propri allievi come loro filiazione, una forma di emanazione del loro potere. C’è in me il desiderio di rappresentare tutte quelle persone che decidono di uscire dal coro. Da ribelle quale sono, rivendico il diritto di non allinearmi».

 

Ribelle. E con una precisa idea di leadership: l’ho sentita intervenire più volte sull’argomento.
«È vero, spesso vengo chiamata nelle aziende per parlare di questa tematica. Mi piace diffondere l’idea di una leadership più partecipativa, più coinvolgente, che tributi il giusto riconoscimento alle persone. Credo che promuovere questo tipo di cultura stia diventando un’urgenza. Anche perché, se ci pensiamo, l’unica cosa che una persona vuole nella vita è essere riconosciuta per il proprio valore. Nel nostro Paese si fa ancora fatica».

 

Per raggiungere riconoscibilità e successo, serve un’appartenenza politica? Glielo chiedo perché lei ha diretto l’orchestra dei Virtuosi italiani al Concerto del Primo maggio di Fratelli d’Italia. Alla Conferenza è intervenuta con un appassionato discorso, dicendo che non si sente rappresentata da uno Stato che consente discriminazioni sul lavoro, sulla base del genere, della propria opinione e della simpatia politica. È una donna di destra? E quanto conta?
«Credo che sia necessario distinguere tra schierarsi dal punto di vista partitico e schierarsi contro un sistema. L’essere stata presente alla convention è stato un impegno personale e professionale. Il fatto che venisse finalmente richiesta la musica classica, la grande tradizione del nostro Paese, all’interno di un concerto del Primo Maggio, mi ha dato un senso di liberazione: finalmente qualcuno si rendeva conto, in un contesto politico importante, di quella che è la nostra radice culturale. Perché quello che non si vede in questi anni è proprio questo: considerare la cultura come valore fondante di un Paese. Trovare una parte politica che riconosce ciò è raro. E personalmente è una cosa che apprezzo molto».

 

Come apprezza Giorgia Meloni: più volte le ha apertamente espresso la sua stima.
«Sì. Ho molta stima di Giorgia Meloni, come donna, prima di tutto. Una donna del genere nel nostro panorama politico italiano, e non solo, non l’abbiamo ancora vista, sinceramente. Queste sono considerazioni personali che faccio, più che una vera e propria appartenenza a uno schieramento politico. Apro le braccia a una parte politica che finalmente riconosce l’importanza della cultura e della nostra tradizione come valore fondante di un Paese. Ed è la prima volta che lo vedo».

 

A sinistra non ha trovato la stessa apertura?
«Assolutamente no. E ricordo anche che, durante il lockdown, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto che gli artisti sono quelli che ci fanno tanto divertire. Se noi siamo questo, vuol dire che alla cultura e all’intrattenimento culturale non è riconosciuto alcun valore fondante e decisivo per il Paese. Questo almeno è ciò che viene è percepito. Ed è una percezione sempre diffusa nel mio ambiente. Che pure, notoriamente, sta da un’altra parte. Ma proprio quella parte politica che negli ultimi venti-trenta anni doveva essere di supporto alla cultura è stata la prima a utilizzarla per mantenere dei baluardi di potere. E basta».

 

La politica la tenta?
«No, al momento no. Mi piace l’idea della politica come l’origine della parola suggerisce, come cura del bene comune. Mi piace lavorare nella cultura. Adesso, per esempio, ho lanciato un progetto di educazione musicale con De Agostini Scuola per le scuole medie, per proporre un’educazione all’ascolto, cioè un’educazione alla scoperta del nostro patrimonio culturale e musicale. Credo in questo tipo di azioni politiche».

 

E con i social che rapporto ha?
«I social sono un modo per comunicare in modo diretto con un pubblico con il quale è necessario recuperare un rapporto, a maggior ragione dopo il Covid. E mentre è difficile riportare le persone a teatro, mi fregio del fatto che quasi tutti i miei concerti sono sold out. E c’è un motivo: perché riesco ad intercettare anche un pubblico di non addetti ai lavori, a incuriosirlo e a portarlo a teatro. Questo è il motivo per il quale sono così esposta mediaticamente e utilizzo i social».

 

Anche gli abiti sono una passione?
«Adoro. Ma questo ormai è... spoilerato».