Bustine di Minerva, saggi, scritti dimenticati. Pagine e pagine, ora riunite, che compongono quasi un trattato del grande semiologo. A sua insaputa

Nell’anno 1987 slide e PowerPoint erano di là da venire e scarseggiavano persino i più modesti proiettori di diapositive e simili. Così era un fascio di fotocopie quello che Umberto Eco, in un bel sabato primaverile, recava con sé entrando a grandi passi nell’Aula A dell’Istituto di Comunicazione di via Guerrazzi, a Bologna. Un unico foglio fu distribuito a ognuno dei partecipanti del seminario laureandi: riproduceva una copertina del New Yorker dell’ottobre del 1969, evidentemente conservata da Eco sino ad allora.

Autore dell’illustrazione, il sommo Saul Steinberg. Nell’angolo basso si vedeva un esile omino, come una figurina di fumo, mentre visitava un museo e stava di fronte a un quadro cubista. I tre quarti abbondanti della copertina erano occupati da un vastissimo fumetto che riportava la catena di pensieri dell’omino: “Braque, baroque, barrack, bark, poodle...” e così via per una quantità irresistibile di associazioni anche deliranti: “...BUtterfield 8, ALgonquin 4, ELdorado 5 , El Morocco, Mogador, Mogadiscio, Abyssinia... 1936 ! - Vittorio Emanuele III° Re d’Italia e di Albania Imperatore d’Etiopia, George V, Louis XIV, Louis XVII e Louis XXXIX...” . Le due ore abbondanti di seminario bastarono per ricostruire solo alcuni degli anelli della catena, discutendo i diversi tipi di relazioni linguistiche, retoriche, enigmistiche, combinatorie: furono utili e divertenti. Ma poi all’uscita del seminario si discusse: è proprio così che succede davanti a un quadro?

Nel caso della copertina di Steinberg la figura era un pretesto: ai fini del seminario sarebbe bastata la successione di associazioni. Ma per il visitatore del museo il quadro è un testo in sé. E allora, quel testo fatto di segni grafici che non sono lettere, come funziona?

Eco se lo è domandato molte volte e ha affinato la sua risposta a mano a mano che cambiava, adattava e affinava gli strumenti teorici a sua disposizione.

Persino nella sua ultima Bustina di Minerva per L’Espresso si sarebbe posto il problema. Era il gennaio del 2016, Eco sarebbe scomparso nel mese successivo e, in quello che sarebbe stato anche l’ultimo testo da lui licenziato, se la prendeva con una sua già deprecata bestia nera, Francesco Hayez.

Tralasciamo qui il dettaglio dei rilievi che il semiologo muoveva al pittore romantico - a parte la circostanza per cui per lui “una gamba è una gamba” (ciò che ricorda l’aforisma di Oscar Wilde per cui “Lo scrittore che chiama zappa una zappa dovrebbe essere costretto a usarla”). Interessa che abbia parlato d’arte poiché Eco aveva già mosso i suoi primissimi passi di studioso (decenni prima di quest’ultimo) lungo le vie dell’estetica.

Con tutto ciò possono sorprendere le oltre mille pagine del volume in cui Vincenzo Trione, a sua volta critico e storico dell’arte contemporanea, ha raccolto un’amplissima scelta di scritti dedicati da Eco a pittori, opere, fotografie, fumetti, teorie critiche, estetiche e semiotiche dei linguaggi artistici (Umberto Eco. “Sull’arte. Scritti dal 1955 al 2016” a cura di V. Trione, La nave di Teseo, € 35). Un’analoga raccolta di scritti echiani sulla televisione, curata quattro anni fa da Gianfranco Marrone, altrettanto rappresentativa e importante, contava metà delle pagine.

 

In effetti sulla grande questione dell’iconismo Eco continuò a pensare e rivedere le sue posizioni per tutto il trentennio che separa i suoi libri “La struttura assente” (del 1968) e “Kant e l’ornitorinco” (del 1997). Prima, durante e dopo aveva elaborato il concetto di “opera aperta”, osservato e accompagnato con riflessioni teoriche gli sviluppi delle correnti d’avanguardia, inaugurato lo studio dei linguaggi del fumetto - con grave scandalo dei benpensanti intellettuali dell’epoca -, curato libri illustrati, disegnato egli stesso vignette, recensito i musei americani più pacchiani, progettato da giovane assieme a una grafica tedesca che sarebbe divenuta sua moglie una “Storia della bellezza” per realizzarla quarant’anni dopo come cd-rom e come primo libro di una serie continuata con la “Storia della bruttezza” e “La Vertigine della lista” (derivato da un progetto per il Louvre).

Nel volume curato da Trione (e corredato di ottimi apparati bio-bibliografici) questo percorso è testimoniato da pietre miliari, pietre d’inciampo e curiosi sassolini. Saggi di semiotica del visivo (come i due, meravigliosi, sul problema del tempo nell’arte figurativa) e confronti con artisti che erano anche interlocutori, come Carmi, Munari, Tadini, Balestrini, Arman e, più di ogni altro, per vicinanza e “lunga fedeltà”, Tullio Pericoli (il libro contiene anche 80 suoi ritrattini di Eco); interventi politici, come l’analisi di una celebre foto di uno sparatore dell’Autonomia Operaia del 1977, e divertissement di varia natura; ritorni su temi carsici, come il Kitsch e il Falso.

 

Nel suo illuminante saggio introduttivo Trione considera questa raccolta come una sorta di trattato preterintenzionale, asistematico, eclettico eppure straordinariamente omogeneo, nella diversità dei metodi di analisi che Eco ha sperimentato e spesso inventato nel corso della sua carriera. Oltre a ciò si può pensare che una testimonianza tanto cospicua consenta anche una lettura non solo teorica. C’è sotto anche qualcosa di più personale, e lo si capisce ancor meglio in questa primavera in cui la collezione di libri antichi di Eco è stata appena collocata proprio alla Biblioteca di Brera (dove si può anche ammirare un’esposizione di libri legati ai suoi romanzi), nello stesso palazzo che ospita il celeberrimo Bacio dell’inviso Hayez. Dell’arte visiva Eco ha detto variamente: dei suoi linguaggi, delle forme espressive, dei “modi di formare”, dei rapporti possibili tra artista e interprete, dei risvolti sociali, dell’economia e dell’ “etologia” relativa all’arte stessa. Quando ne parlava, Eco si schermiva, dichiarando di non aver mai dato un esame di Storia dell’Arte. Però in tutta la prima fase del Dams, quella più visionaria e interdisciplinare, faceva lezione assieme a colleghi e amici come la storica dell’arte Anna Ottani Cavina, incrociando competenze e linguaggi (e beato chi c’era). Però nel 1983 aveva ideato un convegno internazionale su “Piero della Francesca teorico dell’arte” organizzato poi ad Anghiari dall’allievo e quindi collega Omar Calabrese. Però le descrizioni nei suoi romanzi non sono soltanto minuziose: sono anche appassionate. Da James Joyce aveva tratto, tra il molto altro, l’incanto per l’epifania; da T. S. Eliot e Eugenio Montale, la dottrina del correlato oggettivo.

 

In un uomo tanto legato alla dimensione primaria della parola scritta e detta, il ciclico e insistente ritorno alla dimensione della figura lascia sospettare che per lui questa fosse davvero “the Other Side”: l’interlocutrice assidua e sfuggente; l’altra metà del cielo della significazione; la regina Loana da inseguire con la parola (“Braque, baroque, barrack...”) ma da conquistare con l’assidua prossimità del silenzio.