Intervista
Gérald Bronner: «Così smaschero la democrazia dei creduloni»
Limiti agli influencer e lucidità contro il “lazy thinking”. Il sociologo francese spiega come si combatte la deriva delle fake news: «Noi esseri umani siamo delle scimmie sociali»
Gérald Bronner è sociologo delle credenze, professore di Sociologia all’Università di Parigi Diderot - Parigi VII, membro dell’Accademia Nazionale di Medicina, dell’Accademia di Tecnologia e dell’Istituto Universitario di Francia. Autore di tre libri tradotti in italiano “Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici” (Il Mulino), “La democrazia dei creduloni” (Aracne), “Fake news. Smascherare le teorie del complotto e le leggende metropolitane” (Sonda), oggi co-dirige un gruppo di lavoro sul pensiero critico nel Consiglio Scientifico dell’Educazione Nazionale. In un mondo interconnesso, dove le notizie sono immediatamente disponibili, in un mercato mondiale in cui si possono vendere con poco sforzo, economico e mentale, i propri prodotti cognitivi, in uno scambio immediato di opinioni ed informazioni, come si formano le nostre credenze? Perché le fake news si diffondono così rapidamente ? Cosa fare per preservare la democrazia dal pericolo della credulità? In un rapporto redatto per l’Eliseo, “L’illuminismo all’epoca digitale” Bronner propone una serie di soluzioni per far fronte ai rischi di un’apocalisse cognitiva.
Oggi le fake news sono molto diffuse e il pubblico ha sviluppato una nuova sensibilità per questo genere di informazioni. Ma le fake news sono sempre circolate. Cosa cambia oggi rispetto al Medioevo?
«La nostra rappresentazione del mondo è molto evoluta, l’interpretazione letterale della Bibbia è stata superata. Il mercato dell’informazione rispetto al Medioevo si è molto trasformato, la quantità delle informazioni è superiore. Nel Medioevo l’informazione si trasmetteva oralmente, era basata sulle nostre capacità mnemoniche, modificando così il messaggio. I libri erano rari e cari. Poi c’è stata la stampa e oggi l’invenzione dell’informazione trasmessa via onde. Internet è la forma ultima della deregolazione del mercato dell’informazione. Quello che cambia è che prima solo i “gatekeeper” potevano esprimersi, i guardiani delle soglie del mercato dell’informazione, ora chiunque possieda un account può contraddire un professore di medicina sul vaccino. Inoltre la caratteristica del mercato dell’informazione di oggi è che c’è una pressione concorrenziale senza eguali nella storia dell’umanità, con la riduzione dei costi della produzione di informazione e la diffusione dell’informazione. Tutti i modelli intellettuali che pretendono di descrivere il mondo, credenze e conoscenze, pensieri magici e ideologie politiche, sono tutti in libera concorrenza, quasi senza nessun filtro. Questo crea una disponibilità d’informazione mai vista. Si sono prodotte più informazioni negli anni 2000 che nell’intero periodo che va da Gutenberg al 2000. Negli ultimi due anni abbiamo prodotto il 90 per cento dell’informazione disponibile».
Lei viene definito sociologo delle credenze. Che differenza c’è tra una credenza e una conoscenza?
«È molto difficile definire le frontiere tra credenza e conoscenza. Si può dire che la credenza è un modello che pretende di descrivere il mondo, secondo la categoria del vero e del falso, del bene e del male, del bello e del brutto. Anche la conoscenza pretende la stessa cosa. Come ho scritto in “L’empire des croyances”, nella maggioranza dei casi siamo di fronte a credenze. I momenti di conoscenza sono momenti rari della coscienza umana. La conoscenza è quando siamo di fronte ad un enunciato che è probabilmente vero e del quale padroneggiamo tutta l’argomentazione. Le credenze non sono per forza false: si può credere alla teoria del Big Bang, per esempio. Credo in questa teoria anche se non la capisco completamente, è una credenza per delegazione. Credo perché ho fiducia nella comunità degli scienziati. Ma non posso dire che sia una conoscenza, perché non possiedo tutta l’argomentazione che mi permette di conoscere. Nella maggioranza dei casi abbiamo un rapporto di credenza nei confronti delle idee, tuttavia nel caso del Big Bang la credenza è probabilmente vera, non è identica alla credenza secondo la quale toccare ferro dovrebbe scongiurare la sfortuna. La conoscenza è un rapporto ad un enunciato di cui conosciamo perfettamente l’argomentazione e che è probabilmente vero, tutto il resto è credenza. La peggiore credenza, il grado più basso, sono quelle che sono probabilmente false e di cui non conosco l’argomentazione, come le superstizioni. Tra le due c’è una frontiera non perfettamente chiara».
Nell’ultimo libro lei parla della questione cognitiva, essere dei creduloni dipende anche dal funzionamento del nostro cervello. Che ruolo gioca il nostro cervello nella ricezione e diffusione delle credenze?
«Tutto quello che sta accadendo è la conseguenza del funzionamento ancestrale del nostro cervello di fronte all’ipermodernità del nostro ambiente sociale, e in particolare digitale. I due fattori sono necessari per capire quello che ci sta accadendo. Uno dei fattori che spiega la diffusione di false informazioni è che queste ultime vanno nel senso delle aspettative intuitive del nostro cervello, appagano quello che ho chiamato l’aspetto oscuro della nostra razionalità. Per esempio, uno studio pubblicato nella rivista Science ha mostrato che le informazioni false sono sei volte più virali su Twitter rispetto ad informazioni vere. C’è una forte asimmetria in questa concorrenza dell’informazione, e questo è un dramma ! Si sarebbe potuto immaginare che nell’insieme di tutte le rappresentazioni del mondo quelle che avrebbero avuto un vantaggio sarebbero state quelle vere. Avremmo potuto immaginare che fra qualche decina d’anni avremmo potuto dare vita a delle vere e proprie società della conoscenza, perché la conoscenza può diffondersi meglio, ma non è ciò che sta accadendo. In certe situazioni, è la fake news che vince perché può godere del “lazy thinking”, il pensiero pigro. Tutti gli studi mostrano che la variabile che determina l’affermarsi di queste informazioni è un indebolimento della nostra vigilanza razionale. Siamo tutti dotati di razionalità, ma in alcuni momenti abbassiamo la guardia. La cacofonia dell’informazione contribuisce a far abbassare il nostro livello di vigilanza. Nella maggioranza dei casi, ricerchiamo delle informazioni che vanno nel senso delle nostre credenze. Più informazioni disponibili ci sono, più ne troveremo sicuramente una che va nel senso di quello di ciò che crediamo veramente. È il paradosso della credulità informativa, più informazioni ci sono, più diventiamo creduloni, mentre potrebbe sembrare l’opposto».
Stiamo vivendo in quella che lei chiama la democrazia dei creduloni?
«Questa deregolazione del mercato dell’informazione è squilibrata. Internet è una strana democrazia, alcuni votano cento volte, altri non votano mai. Nell’asimmetria di visibilità, alcuni si esprimono molto di più e in generale sono persone con visioni radicali, coloro che credono fermamente in qualcosa, come gli anti-vax o i cospirazionisti. Sono sempre esistiti, non li ha inventati internet, ma prima i loro argomenti erano confinati ad alcuni spazi di radicalità sociale, non occupavano lo spazio pubblico. Molti studi mostrano per esempio che gli anti-vax non sono numerosi, ma sembrano tantissimi perché si esprimono molto di più sui social, e lentamente riescono a convincere i nostri concittadini dei loro argomenti. Quando lo spiegavo nel 2013 in Francia, non avevo molti dati, ma oggi le scienze sociali-computazionali mi hanno dato ragione. Ci sono moltissimi dati che mostrano questo fenomeno. C’è un articolo molto recente sui super-users : l’1 per cento degli utilizzatori produce il 33 per cento dell’informazione disponibile».
Perché questo funziona?
«Noi esseri umani siamo delle scimmie sociali. La maggior parte dei nostri punti di vista si stabilizzano sui punti di vista degli altri. Quello che pensiamo di noi stessi, lo dobbiamo molto al punto di vista degli altri, ci influenza molto. La stessa cosa avviene per il modo in cui ci rappresentiamo il mondo. Il punto di vista degli altri ci informa moltissimo, la maggior parte di quello che crediamo sapere sono delle credenze costituite a partire dagli altri. Eppure, non è internet che ha inventato questo! È sempre andata così, ma oggi il campione di punti di vista altrui accessibili si è profondamente trasformato attraverso i social network. Prima conoscevamo il punto di vista dei nostri amici, dei colleghi, di esperti certificati alla televisione, alla radio, persone legittimate a prendere la parola. Su temi di cui non sapevamo molto, come i vaccini, ci si affidava alla parola dei medici, dei quali si aveva fiducia, non si mettevano in dubbio i benefici dei vaccini. Poi, di colpo, altre persone hanno preso la parola e il nostro campione di “reale” è influenzato dalla popolarità e dalla visibilità di alcuni punti di vista, ovvero dalla motivazione di alcuni attori nell’imporre il proprio punto di vista. Così la democrazia della conoscenza può diventare la democrazia dei creduloni».
Nel rapporto “L’illuminismo ai tempi del digitale”, lei propone, tra le altre cose, di sensibilizzare gli influencer, rendendoli più responsabili rispetto ai contenuti prodotti. Questi però appartengono al mondo del mercato, rispondono alle leggi del commercio e non hanno un compito propriamente pedagogico. Sarebbe come chiedere ad un’azienda che produce armi di vendere i propri prodotti solo a persone od entità che le useranno a scopi difensivi. Siamo sicuri che questa sia soluzione efficace? Gli influencer non devono semplicemente vendere sé stessi o la propria immagine?
«Il mercato delle armi non è un mercato libero, è regolato, ci sono norme. Nel caso degli influencer non si tratta di impedire loro di esprimersi, ma di avere delle norme di responsabilità, come quando obbligate le aziende di sigarette ad aggiungere l’avviso “fumare uccide” sui pacchetti di sigarette, è una forma di responsabilizzazione. Ci sono delle norme di regolazione del mercato che cercano di influenzare gli effetti senza toccare le libertà individuali. Quando si vuole regolare un mercato, il rischio è però quello di infrangere la libertà di espressione. La mia idea è di pensare delle regolazioni non liberticide. Quando, per esempio, YouTube propone un campione di video non rappresentativo sul riscaldamento climatico, per il gioco degli algoritmi, sta ingannando chi naviga. È necessaria l’esistenza di una diversità autentica, fare in modo che le persone o le idee siano visibili in proporzione a quello che rappresentano realmente».