Giovanissime, determinate e con un ritmo irresistibile: «Quando suoniamo noi, ballano tutti», dicono di sé le Star Feminine Band, sette ragazze del Benin che stanno conquistando il palcoscenico della world music. Dopo il lodatissimo disco d’esordio che portava il nome del gruppo, esce in questi giorni il secondo album, “In Paris” (in ascolto e in vendita su Bandcamp). Registrato in studio a Parigi e quindi necessariamente meno vivace del primo – che era nato da una due giorni dal vivo in Benin – “In Paris” è l’occasione per scoprire una band notevole per freschezza e maturità, e per conoscere la loro storia, davvero unica.
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Il gruppo nasce in un paese della campagna del Benin, Natitingou. È qui che nel 2016 il polistrumentista André Balaguemon propone al sindaco di promuovere un laboratorio musicale per ragazze del posto: gli strumenti li avrebbe messi a disposizione lui. L’idea del musicista, sostenuto da un gineceo personale formato da sua madre, sua moglie e dalle due figlie che oggi suonano nella band, era semplice: «Nel nord del Benin le donne sono messe da parte, hanno meno possibilità di realizzarsi rispetto al resto del Paese», ha spiegato. «Ho semplicemente voluto mostrare il valore della donna nella società formando un’orchestra femminile».
Il sindaco accetta, trova uno spazio per suonare e lancia un appello radiofonico. Arriva un gruppo di diciotto ragazze che non avevano mai suonato prima: è incredibile che ci siano voluti solo sei anni per scegliere le migliori e trasformarle in una band dal successo mondiale. Oggi hanno tra 12 e 18 anni, in una formazione che ha uno zoccolo duro in due coppie di sorelle (Angélique Balaguemon – percussioni e canto - e Grace Marina alle tastiere; Julienne Sayi al basso e Anne alla chitarra): nei dischi in più si alternano Sandrine Ouei (tastiere), Urrice Borikapei (percussioni), Marguerite Kpetekoutee e Peba Ikisina (voce).
Alle loro spalle, invisibile (non compare in nessuna foto) ma onnipresente, c’è André, che segue ogni momento della vita della band, dalle esercitazioni all’abbigliamento alla realizzazione dei video: eppure riesce a lasciare alle ragazze una libertà che non ricorda nessuna “girl band” occidentale, e nemmeno una “boy band”, per essere sinceri.
Gli allenamenti sono lunghi e severi. Le ragazze suonano tre sere a settimana, tutte le domeniche e, durante le vacanze, ogni giorno dalle nove alle cinque. Sono legate alla band da un contratto che impegna i genitori non solo a permettergli di continuare a suonare, ma anche di andare a scuola e di non essere obbligate a sposarsi presto: le gravidanze precoci e i matrimoni forzati sono due piaghe che impediscono lo sviluppo delle donne del Benin. Da questo impegno nascono le canzoni di “empowerment” del primo disco: «Puoi diventare presidente della repubblica / puoi diventare primo ministro» dice “Femme africaine”, ispirata dal successo politico di Kamala Harris, vicepresidente degli Stati Uniti. Un impegno che diventa ancora più esplicito in questo secondo album, che dedica canzoni e video al matrimonio forzato e alla infibulazione.
Che testi così didascalici possano funzionare così bene è una vera sorpresa. Le canzoni le scrive Balaguemon su spunti dati dalle ragazze, parlano con leggerezza di temi importanti e mischiano ritmi e lingue. Alcune sono “cover” di canti tradizionali. Ha spiegato Balaguemon: «Abbiamo voluto rendere onore alle danze waama, che balliamo da sempre. Abbiamo composto canzoni in francese ma anche in waama e ditamari, le lingue di due etnie misconosciute del nord del Benin. Ma cantiamo anche in bariba e ovviamente in fon, che è la lingua maggioritaria del Paese: vogliamo che il più gran numero di persone possano comprenderci». Sono canzoni che nascono per un pubblico africano: solo nel nuovo disco fa capolino l’inglese, nella speranza di un successo ancora più largo: «Le ragazze sognano di diventare star a livello mondiale, per mostrare il valore della donna nel mondo intero. E per parlare dell’Africa, con i suoi valori e i suoi problemi: la mutilazione femminile, la violenza sulle ragazze. Vogliamo portare questi argomenti nel dibattito politico del Benin, dell’Africa e del mondo intero, se ci riusciremo».
Il modello è Angélique Kidjo, la star del Benin che ha iniziato con la Orchestre Poly-Rythmo di Cotonou e da lì ha conquistato il mondo (e quattro Grammy negli Stati Uniti). La novità delle Star Feminine, anche rispetto a Kidjo, è che suonano: le donne in Benin potevano cantare e ballare ma non era ben visto che suonassero uno strumento musicale. Soprattutto i tamburi tradizionali, il kan’kare e il kanganmou, non erano mai affidati a una donna.
Le ragazze si fanno le ossa con decine di concerti nella zona. Il pubblico accorre in massa, soprattutto donne ma pure uomini, soprattutto giovani ma pure anziani, anche perché parliamo di una regione in cui le attività culturali e gli spettacoli si limitano a cerimonie religiose, riti agrari o funerali. Finché arriva il momento di registrare un disco. Ed è qui che scocca il secondo incontro fortunato: alla fine del 2018 la band entra in contatto con un ingegnere del suono francese, Jérémie Verdier. Per il primo disco, con l’aiuto di due colleghi spagnoli, Juan Toran et Juan Serra, vengono portate nel paesino le attrezzature per registrare: lo studio è una dependance del museo del posto. Tornato in Francia, Verdier fa ascoltare le registrazioni a Jean-Baptiste Guillot, che dopo decenni come art director di major discografiche ha fondato nel 2006 la sua etichetta, Born Bad Records. Il resto è storia.
I video del nuovo disco mostrano le ragazze a Parigi, avvolte in cappottoni colorati quanto le stoffe tradizionali con cui vestono normalmente sul palco. Rispetto alle location africane delle altre canzoni la differenza è straniante: l’allegria però è rimasta uguale. E la bravura, con due anni di allenamento in più, è notevolmente aumentata.