Intervista

La nobel Shirin Ebadi: «Il mio Iran è un fuoco che covava sotto le ceneri. E le donne lo hanno acceso»

di Sabina Minardi   30 settembre 2022

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“Donna, vita, libertà”, è lo slogan che sta incendiando le strade del Paese. In una rivolta, guidata dalle ragazze, sempre più radicale. «Oggi gli uomini procedono esattamente al loro fianco». Parla la Premio Nobel per la Pace

«Aspettami qui, torno tra poco, dissi all’autista. Controllai nello specchietto retrovisore che il foulard coprisse bene i capelli, ma non avevo di che preoccuparmi: era incollato alla fronte dal caldo...».

 

Una cosa ha sempre detto Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003: «La mia storia è la storia dell’Iran». E a rileggere l’incipit della “Gabbia d’oro” (Bur), romanzo su tre fratelli nell’incubo della rivoluzione iraniana, scritto in prima persona da una delle più carismatiche figure del nostro tempo, la sua storia continua a combaciare con quella del suo Paese. Per un velo messo male è morta Mahsa Amini, ragazza di origini curde in viaggio a Teheran: un velo che scivolava rovinosamente, come accade a tutte le donne occidentali in visita in un luogo sacro all’Islam, quando sono temporaneamente costrette a indossare l’hijab.

 

Il 13 settembre scorso quel pezzo di stoffa è costato la vita alla ventiduenne perché non copriva del tutto i capelli: prelevata dalla polizia morale del regime islamico è stata restituita dopo tre giorni alla famiglia senza vita. Ma questa volta le iraniane hanno detto basta, e innescato una rivolta il cui esito è ancora da scrivere.

Shirin Ebadi

Centinaia, migliaia di donne, madri con i figli, studentesse e ragazze per lo più giovanissime si sono riversate nelle strade della capitale e rapidamente in quelle di almeno un centinaio di città, manifestando contro quel simbolo potente di costrizioni praticate sul corpo delle donne specialmente: strappandolo, bruciandolo e urlando il più incendiario degli slogan: «Donna, vita, libertà». Oggi, esattamente come nei racconti di Ebadi.

 

«La nobile Persia, lo sventurato Iran. Arrivavamo lente come una migrazione da ogni parte. Madri, mogli, sorelle. Erano diverse in tutto, ma avevano tutte lo sguardo fiero e senza lacrime. I morti si piangono solo a casa», scandisce il romanzo.

 

Nata a Hamadan nel 1947 e cresciuta a Teheran, Ebadi è stata la prima donna magistrato dell’Iran, prima persona del suo Paese e prima musulmana a ricevere un Nobel. Nel 1979, dopo la rivoluzione islamica, è stata costretta ad abbandonare la magistratura. Per il suo impegno legale proseguito a favore dei bambini, delle donne discriminate, degli scrittori messi al bando, di persone sottoposte a violenze, ha subito minacce e persecuzioni. Dal 2009, dopo un’irruzione nel suo appartamento e un mandato d’arresto, vive in esilio a Londra.

È da lì che risponde a L’Espresso, mentre segue con attenzione le notizie in arrivo. Senza traccia di sorpresa: «L’ho detto mille volte: l’Iran è come un fuoco che cova sotto le ceneri, qualunque cosa poteva fare alzare questo fuoco, ed è successo».

 

L’Iran brucia. Mentre scriviamo sono almeno 76 i morti, compresi 4 bambini e 6 donne, secondo la Ong Iran Human Rights. Una ventina i reporter arrestati, migliaia le persone in galera. Arrestata l’attivista Faezeh Hashemi, figlia dell'ex presidente Rafsanjani. Resta in carcere la giornalista di “Shargh” Nilufar Hamedi, fermata a Teheran per aver dato la notizia della morte di Mahsa Amini, e con lei la fotografa Yalda Moayeri. Da Karaj non si fermano le proteste per l’uccisione di Hadis Najafi, e poco importa che non sia la ragazza bionda che ha fatto il giro del mondo mentre si legava i capelli. Aveva vent’anni, è morta trucidata dalla polizia mentre rivendicava vita e libertà. «Non sono Hadis Najafi», dice ora alla Bbc farsi la ragazza del video diventato virale: «Ma combatto per tutte le Hadis e le Mahsa. Non abbiamo paura di essere uccise». Nelle piazze e sui social donne di tutto il mondo si tagliano i capelli in segno di lutto e di dissenso, intonano “Bella ciao”.

 

«Per 43 anni questo regime non ha risposto alle richieste del popolo e l’Iran si è trasformato sempre di più in un fuoco ardente, che covava sotto le ceneri», prosegue Ebadi: «L’uccisione di Mahsa per mano della polizia morale ha scoperchiato questa cenere, ha sparso via tutto ciò che la ricopriva e ha fatto divampare le fiamme. Ma qualunque cosa, a questo punto, poteva incendiare l’Iran: perché per 43 lunghissimi anni questo regime ha ignorato le richieste del suo popolo». Al contrario, ha continuato a vessarlo. E le donne, che l’ayatollah Khomeini aveva da subito considerato principale ostacolo al suo progetto teocratico, ne hanno fatto più di tutti le spese, come ha appena ricordato su Le Monde la scrittrice Sorour Kasmaï (“Enemi de Dieu”): nel febbraio del 1979, ancora prima dell’istituzione della Repubblica islamica dell’Iran, fu imposto il velo obbligatorio dall’oggi al domani. «Nel giro di una notte le donne persero tutti i diritti a loro riconosciuti dal diritto di famiglia, compreso l’affidamento dei figli in caso di divorzio o la libertà di viaggiare senza il consenso del marito. Le donne furono immolate sull’altare dell’onore degli uomini, della società, dello Stato». Quelle stesse donne che una mostra celebra con sorprendente coincidenza al Barbican Centre di Londra: “Rebel Rebel”, dedicata a emblemi di emancipazione e intraprendenza, tra il 1925 e il 1979.

 

Cosa è accaduto dopo Shirin Ebadi non ha mai smesso di denunciarlo: «Il mio scopo nello scrivere è rendere testimonianza di ciò che il popolo iraniano ha sopportato», annota in “Finché non saremo liberi” (Bompiani): «Leggendolo, vedrete come uno Stato di polizia può influire sulla vita delle persone e gettare le famiglie nella disperazione. Se un governo può comportarsi in questo modo con una donna premio Nobel per la pace, che ha accesso ai media internazionali e che è un avvocata con una profonda conoscenza del sistema legale del Paese, potete immaginare cosa faccia con gli iraniani comuni. Sono costretta a condividere la mia storia in nome dei molti iraniani senza volto, prigionieri politici e per reati di opinione che si trovano oggi nelle carceri dell’Iran. Giornalisti, attivisti dei diritti delle donne e studenti, che invece di studiare languiscono nelle celle. Senza mai perdere la speranza di un cambiamento».

 

Tre nomi, di donne, per tutti: Nasrin Sotoudeh, una delle più note avvocate dei diritti umani, arrestata più volte anche per aver difeso ragazze senza velo, condannata a 38 anni di carcere; Narges Mohammadi, anche lei avvocata, condannata a 10 anni; la giornalista Masih Alinejad, che nel 2014 lanciò on line “My stealthy freedom”, con foto di ragazze decise a liberarsi dal velo.

 

E gli uomini, Shirin Ebadi, dove sono? «Oggi gli uomini procedono insieme alle donne, esattamente al loro fianco», assicura: «Il problema adesso non è più la protesta contro l’uccisione di una giovane donna che, come le dicevo, ha scoperchiato le richieste del popolo. Oggi il popolo, tutto il popolo, vuole soltanto una cosa: la caduta del regime». Lo urla nelle piazze, lo scandisce in faccia ai militari su strade improvvisate trincee. La lista dei sostenitori, intanto, cresce. Asghar Farhadi, regista di “Una separazione”, ha lanciato un video-appello: «Avrete ascoltato le notizie dall'Iran e visto immagini di donne progressiste e coraggiose che guidano le proteste per i loro diritti umani insieme agli uomini. Lottano per diritti semplici ma fondamentali che lo Stato nega loro da anni. Rispetto profondamente la loro lotta per la libertà. Sono orgoglioso delle donne potenti del mio Paese e spero sinceramente che attraverso i loro sforzi raggiungano i loro obiettivi. Invito tutti coloro che credono nella dignità umana e nella libertà a essere solidali con le donne e gli uomini potenti e coraggiosi dell'Iran». Ebadi con un gruppo di avvocati iraniani ha indirizzato alle Nazioni Unite una dichiarazione chiedendo di affrontare adeguatamente il comportamento «illegale e subumano» di repressione. I firmatari chiedono indagini indipendenti, il ritiro degli ambasciatori dall’Iran e l’istituzione di un comitato di avvocati a difesa dei detenuti.

 

«Cosa si può fare? I governi occidentali devono sanzionare e boicottare chi uccide e viola i diritti umani in Iran come, per esempio, è stato fatto con i sostenitori di Putin, dopo che ha attaccato l’Ucraina», dice la Nobel: «Le proprietà delle persone vicine a Putin sono state confiscate e congelate, come è avvenuto per esempio con il club di calcio del Chelsea. Perché non si fa la stessa cosa con i membri del regime iraniano che hanno parecchie proprietà sparse per tutta Europa? Si sa benissimo chi sono, perché non si agisce in questo modo? Noi chiediamo all’Europa che si faccia la stessa cosa con i guardiani della rivoluzione islamica, i pasdaran, che opprimono il popolo iraniano». Unione europea e Stati Uniti stanno valutando ulteriori sanzioni contro il regime iraniano e come rispondere alla richiesta di comunicare col mondo: con la Rete bloccata sta diventando difficile. Elon Musk ha annunciato l’attivazione di Starlink, Internet satellitare.

 

«La situazione dei diritti umani da quando ho ricevuto il Nobel è molto peggiorata», ammette Ebadi, quando le si fa notare la spinta che il suo riconoscimento ha dato alle donne. Un lavoro incessante che ha ispirato un docufilm, “Shirin Ebadi: Until we are free” di Dawn Gifford Engle. «Voglio ricordare che tre anni fa, in autunno, la gente è scesa in piazza perché il prezzo della benzina era triplicato nell’arco di pochissimo tempo. Il regime iraniano per cinque giorni ha “staccato” Internet e ha ucciso la gente per la strada con armi di guerra. In quelle circostanze 1.500 persone sono state ammazzate. È stata uccisa gente che voleva pane e lavoro. In Iran c’è molta povertà e disoccupazione e la situazione è andata peggiorando», aggiunge Ebadi. Fino alla rivolta in corso: che non sarà come tante altre, notano gli osservatori del Paese.

 

«Ascoltate la gente», inizia a dire qualche anziano ayatollah, come Hossein Nouri Hamedani. Il partito riformista iraniano, l’Unione popolare dell’Iran islamico, chiede l’abolizione della legge sul velo obbligatorio e la fine delle attività della polizia morale. Per Ebadi è troppo tardi. «Khatami e i riformisti sono un passo indietro dal popolo. A questo punto la richiesta del popolo non riguarda più soltanto il velo: la gente vuole che il regime vada via». È la presa di coscienza di una nazione intera. Fariborz Kamkari, regista de “I fiori di Kirkuk”, l’ha detto tra i primi chiaramente: «Non è una rivolta come tante, questa è una rivoluzione».

Che cosa succederà, Shirin Ebadi? Su Le Point ha scritto di osservare i fatti con speranza. «So solo che adesso la polizia e anche le forze più repressive sono esauste, perché le proteste stanno dilagando in tutte le città. E in ogni città la gente non si ferma in un punto preciso per manifestare, ma si distribuisce in varie zone, a sorpresa, e ovunque urla che non vuole più questo regime. La situazione è identica in più di cento città. La polizia non riesce a fronteggiare le proteste. Nonostante siano morte parecchie persone e più di mille siano state arrestate, il popolo è tutti i giorni per la strada. E continuerà a farlo». Con lo spirito indomito che ha nutrito la letteratura: dall’indimenticabile “Leggere Lolita a Teheran” di Azar Nafisi alle pagine di Marina Nemat, Marjane Satrapi, Maryam Madjidi, Abnousse Shalmani, Négar Djavadi. Donne esuli che non hanno mai staccato lo sguardo dal loro Paese: confidando in quelle ragazze che, centimetro dopo centimetro, spingevano indietro i loro veli. Studiavano: più del 65 per cento degli universitari sono femmine. E oggi prendono in mano, insieme al velo sventolato, il loro futuro. Finché non saranno libere.

 

Come Ebadi: «È per amore dell'Iran e del suo popolo, delle sue potenzialità e della sua grandezza che ho intrapreso ogni singolo passo di questo viaggio. E so che un giorno gli iraniani troveranno la loro strada per la libertà e la giustizia».

 

Traduzione di Ella Mohammadi