Che incrocio di religioni e di culture può esserci dietro a uno specchio concavo che riflette il cielo o a una catapulta che spara contro un muro bianco grumi pastosi color sangue? È una delle scoperte di “Anish Kapoor. Rosso veneziano”, realizzato da ZCZ per Sky, in streaming su Now e disponibile on demand. Un film di Waldemar Januszczak che è un ritratto di Kapoor legato alle due mostre veneziane, alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Manfrin. E che mescolando biografia e formazione artistica va alle radici dell’ispirazione di uno degli artisti più famosi e amati di oggi come Kapoor non aveva mai lasciato fare prima d’ora. Anche perché, come tiene a spiegare, «io non mi catalogo come indiano o come ebreo: sono elementi che fanno parte del mio retaggio ma l’artista compie un viaggio che lo conduce molto lontano dai luoghi delle proprie origini».
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Che sono però nel suo caso origini particolarmente cosmopolite e multiculturali. «Sono cresciuto in una casa in cui c’erano cristiani, ebrei, buddisti, musulmani, indù: era normale in quegli anni, anche se vivevamo nell’India delle caste». Il primo miscuglio di religioni e culture è la famiglia di Anish. La madre è un’ebrea araba rifugiata dall’Iraq: gli trasmette le sue tradizioni, i rituali, le musiche (il nonno era il cantore della sinagoga locale). Il padre è indù e fa un lavoro affascinante: è idrografo, cioè disegna per la marina militare carte geografiche dei fondali, che scandaglia con un sonar o con semplici fili a piombo. «Mappare l’ignoto: è così che concepisco il mio lavoro…», commenta l’artista.
La decisione della famiglia di trasferirsi in Israele, quando Anish ha 16 anni e mezzo, è uno shock: Kapoor non spiega le ragioni della partenza, che saranno state probabilmente legate alla violenta ondata di antisemitismo che ha seguito in tutto il mondo la Guerra dei Sei Giorni. Delle difficoltà che hanno reso invivibile ai suoi genitori la vita a Mumbai, Kapoor non parla: ricorda che, al contrario, lui e suo fratello in Israele hanno affrontato il razzismo di chi li chiamava «negri, “darkies”». Si commuove ricordando il rito sciamanico, ispirato da una zia, che lo aiutò ad affrontare l’esaurimento nervoso che seguì al trasloco, e il periodo di studio dell’ebraico che preparò il riconoscimento della sua vocazione per l’arte. Quando arriva a Londra, allo Hornsey College of Arts, ancora pieno della libertà di sperimentare nata dalle proteste del '68, il giovane Kapoor si sente finalmente a casa.
Januszczak, il critico di origine polacca che accompagna Kapoor in questo autoritratto, è bravo a indicare legami con il cristianesimo – il trittico che rimanda alla Crocefissione, il confronto con la Scuola di San Rocco di Tintoretto, perfino le tele coperte di grumi rossi e sembrano carne appesa come nel simbolico “Bue macellato” di Rembrandt: richiami che non è possibile evitare se solo studi storia dell’arte. Non sottolinea invece i legami con l’immaginario indù, che sono evidenti nell’uso di pigmenti dai toni squillanti (che ricordano la famosa Festa dei Colori) e sottintesi nel rifiuto di una cultura festosamente figurativa a vantaggio di un’arte astratta, più legata ai tabù figurativo che lega le radici ebraiche dell'artista e l’islam.
È un legame, quello con l’islam, che Januszczak mette in evidenza quando chiede a Kapoor che importanza ha avuto per la costruzione del suo immaginario la moschea di al-Aqsa, a Gerusalemme. «Quando vivevo in Israele anche i non musulmani potevano ancora entrarci», risponde Kapoor, che ha un ricordo vivissimo del masso enorme racchiuso nella moschea, «quello su cui Abramo avrebbe fatto salire Isacco per sacrificarlo, e da cui Maometto sarebbe partito per i viaggio verso il cielo». Un masso che lega la terra e il cielo, «segno della connessione che porta il rosso della terra a diventare il blu del cielo», commenta, rivelando il simbolo nascosto dietro due dei suoi colori preferiti. «Ho continuato per tutta la vita a tornare su questo tema, senza rendermi conto di metterlo in connessione con al-Aqsa».
È solo uno dei tanti esempi che emergono da questo filmato a proposito di quello «strano dialogo che è l’arte»: «Il meraviglioso dialogo che si instaura tra oggetto osservato e osservatore». Un rapporto che funziona particolarmente bene se a invitare all’osservazione è un artista cresciuto nel dialogo come Anish Kapoor.