Lo show di Netflix con Matilde Gioli ribadisce un concetto condiviso dalla tv tutta: il disprezzo per le nuove generazioni

Chissà perché li odiamo così tanto. I giovani, le nuove leve, quel popolo di under qualcosa non piace praticamente a nessuno, al punto che appena possibile viene sbattuto in malo modo sul piccolo schermo facendo proprio il grido di battaglia del Ministro del Merito sull’umiliazione come motore fondamentale per la crescita.

L’aspetto interessante di questo continuo stropicciamento nelle novelle generazioni è l’ingegnosa creatività con cui si traduce la resa scenica per poter volantinare con presunzione una valanga di moralismi spiccioli. Perché per dare contro ai giovani ci vuole impegno, costanza e dedizione.

Come accade in “Summer Job” (Netflix) che pone al centro del raccontino l’annoso problema del lavoro. Sia chiaro: non quello di un mondo occupato da disoccupati, bensì il rifiuto allergico dell’impiego da cui i giovani scapperebbero a gambe levate.

Così, con un sadismo di buon livello, dieci nuove leve tra i 18 e i 23 vengono attirati nella trappola di una spettacolare villa sulla spiaggia messicana per scoprire all’improvviso che dovranno guadagnarsi il pane. Ovviamente, avendo il reality vaghe affinità con il reale, la busta paga è rigorosamente in nero e viene erogata da datori astiosi e incattiviti che vengono chiamati boss per alleggerire il clima. Praticamente una fiaba dei fratelli Grimm.

A coronare il tutto la voce flautata di Matilde Gioli, che come un’orchessa induce i ragazzi in tentazioni continue solo per dimostrane l’inutilità emotiva. Loro, che addirittura a 20 anni non hanno un posto fisso. Loro, colpevoli di essersi innaffiati di tequila, come se in vacanza si dovesse fare altro. Loro che rimangono almeno perplessi quando si ritrovano immersi nel guano, a pulire gabbie dello zoo cittadino, o sgridati in malo modo perché, incredibile, non riescono a improvvisarsi pasticceri. Insomma, il capitale umano a disposizione è sicuramente discutibile, ad alcuni manca la parola, le unghie sono fuori scala, l’eccesso di cui si vestono è funzionale alle visualizzazioni.

Ma il disprezzo che trasuda nei loro confronti da ogni inquadratura è palpabile, come portatori insani di tutti i mali di una società troppo adulta, figli e figliocci di un sistema in cui il giudizio sprezzante di Briatore sui virgulti scansafatiche si ostina a essere considerato attendibile.

Perché alla fine non importa che tu sia originario del Bosco verticale o di Centocelle. Quel che conta è che il lavoro nobilita, il reality un po’ meno.

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