Personaggi
Luc Besson: «Il politicamente corretto non lo capisco, l’artista dovrebbe avere libertà assoluta. Non uccidiamo nessuno»
Alla vigilia dell’uscita di “Dogman”, il grande regista francese riflette sulle follie di questo tempo, sulla libertà, sul privilegio di poter essere sé stessi. E sull’arte, che può ancora salvare l’uomo
Da quando ha sedici anni si sveglia ogni mattina alle quattro e mezza per scrivere e ha saputo trasformare questa sua passione in una carriera longeva e duratura. Con il suo nuovo film "Dogman" - applaudito ma non premiato alla 80ma Mostra del Cinema di Venezia e dal 12 ottobre nelle sale italiane – il cineasta francese Luc Besson, 64 anni, riflette sulla incrinature della contemporaneità, raccontando la storia di un ragazzo incompreso. Dopo essere stato imprigionato in una gabbia per cani da piccolo, sceglie di dividere con i cani la propria vita colma di sofferenza, ai margini della società.
Perché ha scelto di raccontare la storia di un underdog, reietto e respinto dagli altri?
«Ogni società finge di essere democratica, aperta, inclusiva. La realtà non è così, e i “diversi” vengono marginalizzati ovunque. Alcuni si riconoscono tra loro e si tendono la mano. Io sono cresciuto in una famiglia di donne, mia madre e mia nonna mi hanno insegnato a vedere la diversità come una ricchezza: dovremmo ricordarcelo più spesso, e ricordarlo a chi lo dimentica».
Nel film i cani sono migliori degli umani…
«Viviamo un momento molto strano, tra guerre, razzismi, follie, egoismi: la specie umana sta toccando il fondo. Non so come potremmo cambiare le cose. Viviamo per lo più isolati e coltiviamo il nostro orticello, governati da persone che guardano i propri interessi. E così facciamo noi, ascoltiamo le peggiori notizie al mondo dicendoci “Io sto bene” e pensando solo a noi. È assurdo, siamo informati su tutto, abbiamo miliardi di notizie al giorno, eppure non facciamo altro che scattare foto a noi stessi. Non lo capisco. Sarò antico, ma quando passeggio io ancora guardo gli alberi, i cani, le persone».
È dall’incomprensione che nasce la voglia di raccontare l’emarginazione?
«Un artista è una spugna che assorbe le sensazioni del mondo. Ho visto tanta sofferenza, specie durante la pandemia, che ha contagiato tutto: il modo di stare al mondo, di viaggiare, di interagire con gli altri. Volevo parlare di questo dolore. E “dolore” è l’ultima parola del film».
Qualcosa che ci riguarda.
«Abbiamo tutti perso qualcosa, un cane, una persona cara, un lavoro. Il punto è come reagiamo al dolore: diventiamo migliori o peggiori? Era interessante raccontare la storia di chi si assume il peso del suo dolore e prova comunque ad essere una brava persona. È questo il messaggio».
La storia è tratta da un articolo di giornale. Ha capito da dove nasce la violenza verso chi non si conforma alla società?
«Il mondo è pieno di violenza perché la gente muore di fame. La violenza è figlia della miseria, ne è la diretta e orribile conseguenza. Quando tocchi con mano questa miseria capisci perché la gente faccia cose folli. Perché le famiglie oggi impazziscono? Se pensiamo che negli Stati Uniti sono arrivati persino a proibire gli aborti c’è da rabbrividire. Ma non sono un politico, sono un artista, cerco di stimolare il pensiero della gente rappresentando ciò che vedo».
Qual è oggi il ruolo di un artista?
«Senza arte siamo persi. Tre milioni di anni fa c’era un tipo che faceva un disegno sulle grotte: il mondo intero è partito da lì, prima dell’economia, della religione e della politica. Il legame tra le persone è ancora basato sull’arte, i libri, la musica, il cinema: è questo che ci ricorda che non siamo poi così distanti gli uni dagli altri. Mai come oggi gli artisti sono fondamentali per ricordarci che i soldi non salveranno nessuno, un buon film, una bella mostra sì».
Cosa pensa del “politicamente corretto”?
«Non lo capisco, l’artista dovrebbe vivere di una libertà assoluta, dire e fare ciò che vuole. E varcare i confini spalancando le menti. Siamo artisti, non uccidiamo nessuno».
Lei oggi si sente libero?
«Benedico la libertà che ho di poter scrivere tutto ciò che voglio».
Come ha fatto a dirigere i cani sul set?
«Passando un’ora al giorno con loro e col protagonista, Caleb Landry Jones, un talento che mi ricorda Gary Oldman».