Musica
Ibrahim Maalouf, il trombettista super star: «Ennio Morricone e Nino Rota sono i miei miti»
Jazz ma anche hip-hop. I progetti con Quincy Jones e Sharon Stone. Le radici in Libano e l’amarezza per Israele. Dialogo a tutto campo con uno dei più apprezzati musicisti della scena internazionale
Non ama i confini Ibrahim Maalouf. E neanche le bandiere. Libanese di nascita e parigino di adozione, 43 anni a novembre, trombettista compositore, Maalouf ha fatto della contaminazione la propria ragione di vita. Riempiendo come una rockstar i palazzetti dello sport. Tra jazz, classica, pop e rap, Maalouf affonda le mani nelle radici africane e arabe della musica, ha portato nel suo mondo fiammeggiante Angelique Kidjo e Kronos Quartet, D Smoke e Gregory Porter, Trilok Gurtu e perfino Sharon Stone, che ha commentato una sua canzone su Instagram e lui l'ha coinvolta nel suo ultimo album, “Capacity to love”. «Volevo finire il mio disco come fosse un film, così abbiamo fatto il video in cui Sharon recita quel suo testo. Una poesia contro le ingiustizie: bellissima», afferma al telefono da Parigi. Il 12 ottobre al Roma Jazz Festival (Auditorium Parco della Musica) e a Milano (il 13 ottobre al Teatro dal Verme per il Festival JazzMi 2023) il trombettista porta sul palco il progetto “40 melodies”, quaranta melodie composte nell'arco della carriera anche per colonne sonore, in duo con il chitarrista François Delporte. Un disco inciso per festeggiare il suo quarantesimo compleanno.
A proposito di star, qualche anno fa Quincy Jones la notò in un concerto. E la scorsa estate, a Los Angeles, avete suonato insieme nel live per i suoi 90 anni. Che opinione ha di lui?
«Il più grande produttore della storia moderna, una delle persone più generose e umili che abbia mai conosciuto».
Com'è nata la vostra amicizia?
«Sei anni fa venne a un mio concerto al Festival jazz di Montreux, in Svizzera. Si accomoda sul palco, da una parte. Mi accorgo che è lì e mi dico: “È Quincy!”. Vado dai suoi collaboratori e domando: “Come faccio a sapere se la mia musica gli piace?”. “Ibrahim non ti offendere, di solito Quincy Jones va via prima della fine del concerto”. Faccio io: “Sì, ma quando gli piace va via lo stesso?”. “No, se gli piace ordina da mangiare e resta sul palco”. Allora comincio a suonare, durante tutto il concerto guardo verso di lui. A un tratto penso che sia andato via, all'improvviso vedo arrivare sul palco un enorme vassoio di sushi e capisco che gli è piaciuto. Vado a salutarlo, ci parlo, mi dice che vorrebbe lavorare insieme».
Lei ha scritto anche musica per il cinema. Come considera i compositori italiani?
«Nino Rota e Ennio Morricone per me sono dei miti, sono il loro primo fan. Ma non solo: la cultura italiana ha sempre occupato un grande spazio nella mia formazione. Da piccolo ho studiato a fondo la musica barocca italiana, da Vivaldi ad Albinoni, quando sono cresciuto adoravo l'opera italiana: Rossini, Verdi, Puccini. Ascoltavo spesso Pavarotti, mia madre era appassionata. E più tardi il jazz italiano, Paolo Fresu, Enrico Rava...».
Lei proviene da una famiglia di musicisti. Sua madre Nada è pianista mentre suo padre Nassim, trombettista e musicologo, le ha insegnato la musica classica e contemporanea occidentale, nonché la musica araba classica. Cosa ricorda dei primi tempi?
«Ho cominciato a suonare a sette anni. Mio padre creò una tromba speciale con i quarti di tono, i “maqam” della musica araba, capace di rendere al meglio sia la musica europea sia le sonorità arabe. Arrivammo a Parigi che ero bambino, la mia famiglia fuggiva dal Libano durante la guerra civile. Mio padre studiò con Maurice André al conservatorio di Parigi, voleva continuare a suonare anche la musica d'oriente».
La sua musica sembra orientata verso l'incontro tra culture. Oggi però il vento soffia da tutt'altra parte...
«La mia musica, come quella di tanti altri, è necessaria proprio perché si basa sulla mescolanza. Mio zio Amin Maalouf ha scritto un libro che rileggo spesso e consiglio a tutti: “Identità assassine” (pubblicato in Italia da La nave di Teseo, ndr), in cui spiega con precisione la nozione di identità: la cultura è qualcosa che evolve, si trasforma, si mescola. Anche la genetica è fatta di mescolanza, altrimenti l'umanità muore. Un piccolo esempio: l'orchestra sinfonica classica, così come siamo abituati a conoscerla in Europa, è figlia delle culture del mondo. Il flauto e l'oboe vengono dall'Asia, le timbales, la marimba e le percussioni dall'Africa, il violino e gli strumenti a corda dai Paesi arabi».
Cosa le ha insegnato suo zio Amin Maalouf?
«Sono cresciuto con lui, grazie ai suoi libri sono diventato grande e ho imparato a essere francese. Quando ero piccolo parlavamo arabo in casa, non francese perché i miei genitori erano convinti che un giorno avremmo lasciato la Francia e saremmo rientrati in Libano dopo la guerra. Che però è durata troppo a lungo e siamo rimasti a Parigi».
Uno dei suoi brani più noti si intitola “Beirut”. Si sente ancora legato alla sua terra di origine?
«Mia moglie è libanese, ha tutta la sua vita laggiù. Ci vado spesso, vive ancora lì gran parte della mia famiglia. È molto doloroso, una parte della mia famiglia ha perduto tutto. La crisi in Libano è terribile».
Nel suo ultimo album, “Capacity to love”, Sharon Stone recita una poesia scritta da lei nel brano “Our Flag”. Un inno contro le ingiustizie nel mondo. Alla luce della crisi in Israele e nei territori palestinesi il testo risulta ancora più attuale.
«Ho sempre conosciuto il Libano e i Paesi confinanti in una situazione triste e terribile. Allora rifletto: quando si riuscirà a trovare una soluzione per tutti? C'è gente che soffre e muore dappertutto. Ricordo nel 2006 l'attacco di Israele contro il Libano, 2mila morti di cui almeno 300 bambini civili. Ogni anno c'è un dramma nuovo, ora tocca agli israeliani viverlo. Domani sarà Gaza e poi ancora il Libano e la Siria. Sono triste per questa regione, non merita tutto questo».
Si può trovare una soluzione?
«Non so, non sono un politico. Gli esseri umani trovano sempre una soluzione, fanno la pace. I politici fanno la guerra».