Le canzoni che l'hanno resa famosa, ma anche i romanzi che ha scritto negli ultimi vent'anni. L'ultimo, “Come la neve un giorno. Una visione”, oscilla tra realtà e fantasia. La cantautrice, ospite del Marzamemi Book Fest, racconta sé stessa: «Navigo tra le onde con Virginia Woolf»

La letteratura, la scrittura, le parole sulla carta. «Adoro i classici: ho sempre letto grandi romanzi russi, in particolare Dostoevskij. Più di recente Virginia Woolf, che amo tantissimo, soprattutto il romanzo “Le onde”. E poi le lettere meravigliose di Emily Dickinson», afferma Nada Malanima al telefono dalla sua casa in Maremma. I libri popolano l’altra metà del suo mondo da quando la cantautrice esordì con “Le mie madri”, una ventina d’anni fa, a metà tra prosa e poesia, al centro la sua storia di artista e di donna. L'incontro con Piero Ciampi, il desiderio di restare indipendente, il difficile rapporto con la madre, la passione. Ora la cantautrice torna con un romanzo che flirta con le favole, “Come la neve un giorno. Una visione” (I libri di Atlantide), che presenterà al Marzamemi Book Fest. Per i suoi libri alcuni critici hanno scomodato, scovando parallelismi, Elena Ferrante, Lalla Romano, Vladimir Nabokov. Il nuovo romanzo ha come protagonista Elba, che guarda la vita da un luogo lontano, Villa Incanto, dove il tempo non esiste.

 

Nada, come descriverebbe Villa Incanto?
«È un luogo immaginario, dove Elba è in contatto con persone che vivono in un altro tempo. Una dimensione magica, in cui si mandano segnali verso cose lontane ma anche vicine a lei».

 

I suoi romanzi sono stati ben accolti dalla critica, per una cantautrice non è scontato.
«Infatti non me lo sarei mai aspettato. Quando ho cominciato a scrivere ero consapevole che ci fosse un po’ di pregiudizio, come è naturale quando uno fa un altro mestiere. Ma ero anche convinta che, se nei miei libri ci fosse stato qualcosa di buono, sarebbe venuto fuori. E così è stato. Oggi non ci voglio neanche pensare, mi sembra troppo! (ride)».

 

Che relazione esiste tra musica e scrittura?
«C’è una distanza, rappresentata dalla libertà. Quando scrivi una canzone devi rispettare la musica e il tempo. All’inizio scrivevo canzoni che duravano quaranta minuti, ci ho messo parecchio tempo a trovare la sintesi. Nella scrittura invece hai la libertà, sei sola con la parola. Ma è anche vero che sono sempre io, c’è un collegamento tra i temi ma in una forma diversa».

Quando scrive le capita di ascoltare musica?
«No, non ascolto musica, ma leggo. Leggo altri autori per far viaggiare la mente, prendere qualcosa, da una parola nasce un’idea che mi porta altrove. Mi stimola molto».

 

Oltre alla scrittura, anche la musica ha un aspetto spirituale importante. Una delle canzoni del suo ultimo album si intitola “Nada Yoga”. Lei pratica yoga?
«No, non pratico lo yoga, anche se faccio i miei esercizi di rilassamento e meditazione per connettermi con me stessa e la natura, che amo molto. Tuttavia “Nada yoga” non è riferito a me. È una disciplina dello yoga che consiste nella ricerca del suono interiore. Quando ho scritto questa canzone, molto meditativa, ho pensato che fosse il titolo giusto. Ma è una coincidenza con il mio nome».

 

A proposito del tempo Leonida, protagonista del suo omonimo romanzo di qualche anno fa, afferma di non essersi mai sentita giovane, per cui non può sentirsi vecchia. Come vive Nada l’incedere dell’età?
«Mi sento proprio così. Non mi sono mai sentita né giovane né bella, io in realtà non mi sento. È una sensazione particolare: non do peso all’età, al tempo che passa, al cambiamento fisico. Sento sempre questa bella leggerezza. E anche nell’ultimo libro, che tratta un argomento un po’ scuro, misterioso, prevale la positività, la speranza».

 

Le è capitato di lavorare con artisti più giovani, Motta o Zen Circus. Da cosa nascono queste collaborazioni?
«Non sono stata io a cercarli, le cose che faccio chiamano le nuove generazioni. Non vedo la musica in questo modo, come un progetto a tavolino. Sono una che si dondola in disparte, l’ho anche scritto in una canzone. Loro mi hanno cercato perché hanno sentito la mia musica. Col tempo siamo diventati amici».

 

Alcune sue canzoni sottolineano scene clou di film o serie tv. Come nel caso di “Ti stringerò” per “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti o “Senza un perché” per la serie tv “The young Pope” di Paolo Sorrentino. Che effetto le fa?
«La cosa che mi ha sempre colpito è che le mie canzoni sono state usate in film molto particolari. Addirittura “Ma che freddo fa” è stata usata in un film horror che si intitola “Raw” sul cannibalismo: mentre uno tira fuori un braccio dal frigorifero e lo mangia, si sente la canzone. E poi il caso di Paolo Sorrentino: “Senza un perché” non girava bene. A lui invece è piaciuta tantissimo, era convinto che sarebbe stato un successo. E lo è diventato grazie a lui, che l’ha valorizzata molto in “The young Pope”. Quando credi che una cosa sia giusta, prima o poi viene fuori. Ci sono voluti quattordici anni ma alla fine avevo ragione».