Idee radicali. E l’arte come voce della protesta. Alla Tate di Londra va in scena la creatività femminista tra gli anni Settanta e Novanta. Caleidoscopio di temi che hanno cambiato la società

We’re not beautiful, we’re not ugly. We’re angry!”. Arrabbiate. È il 20 novembre 1970 e un gruppo di femministe fa irruzione nella Royal Albert Hall di Londra interrompendo il concorso di Miss Mondo. Nove mesi prima, presso il Ruskin College di Oxford, sono state ancora al centro della scena: alla prima Conferenza Nazionale di Liberazione delle Donne, un incontro storico che sancisce la nascita del Movimento in Gran Bretagna (WLM) con le conseguenti rivendicazioni sul piano individuale e sociale. In questo clima di dissonanze si apre un ventennio di fermenti - seconda ondata femminista - che viene ora messo in mostra in “Women in Revolt! Art and Activism in the UK 1970 - 90” alla Tate Britain di Londra (fino al 7 aprile 2024). Un viaggio tra dipinti, sculture e fotografie ma anche posters, vignette, filmati, gadgets, documenti d’archivio e tessuti. Non per definire una precisa corrente artistica, ma in una sorta di full immersion in quell’arcipelago di movimenti, con le donne per protagoniste che, tra gli anni Settanta e Novanta, coinvolse il Regno Unito. Oltre un centinaio le artiste rappresentate che hanno dato voce all’universo di quegli anni, ciascuna con le sue esperienze e con un bagaglio di rivendicazioni da portare allo scoperto: fondatrici di movimenti, attiviste, donne impegnate in movimenti e collettivi. Pur agendo nel Regno Unito in quell’arco temporale, erano donne di etnie diverse: dall’Africa all’Asia, dai Caraibi all’India, dal Sud America al Sud-Est asiatico, dagli Stati Uniti al Nord Africa, una rappresentanza planetaria che la società anglosassone, e londinese in particolare, ha potuto esprimere. Donne che hanno visto nell’arte una dimensione in cui poter denunciare ed esorcizzare la loro condizione, avviando un processo di autocoscienza ed esplorazione di sé.

 

"Protest”, 1974

 

L’attivismo del movimento femminista viene espresso dall’opera “Warrior Woman V: The Artist” di Sam Ainsley, mentre temi come il colonialismo e il razzismo sono rappresentati dall’algerina Houria Niati. La violenza domestica che riaffiora drammaticamente nelle famiglie odierne è al centro dei lavori di Gee Vaucher. In modo estensivo e autobiografico Eileen Cooper contempla la condizione della maternità ma anche della sessualità, dell’amore, della morte. Ampia è la schiera del British Black Women’s Movement in cui la lotta di genere si fonde con quella antirazzista. E se Rosy Martin ha contribuito con la “fototerapia” a demolire l’immagine stereotipata e convenzionale nei confronti della comunità omosessuale, la fotografa Melanie Friend pone alla ribalta la genitorialità delle madri teenager mentre la disegnatrice Shirley Verhoeven si sofferma sulla figura della donna glamour che ama la moda. Trovano visibilità, in questa rassegna artistica, anche le donne rifugiate col ruolo subalterno al quale sono costrette prima e nelle società di approdo. Né sono trascurate le donne con pesanti retaggi culturali e abitudini imposte dalle famiglie d’origine: di queste condizioni si fa portavoce l’artista Bhajan Hunjan.

 

In un caleidoscopio di temi, nella polifonia di voci e di racconti, le istanze varcano spesso il perimetro della lotta di genere per sconfinare in temi universali: dalla parità salariale all’antimilitarismo, dalla difesa della propria immagine alla lotta al razzismo, dal riconoscimento del lavoro domestico all’attenzione verso le disabilità, alla libertà sessuale, all’AIDS, alla lotta al capitalismo, fonte di disparità e distorsioni sociali e prodotto di matrice patriarcale.

 

«Ciò che potrebbe sorprendere il pubblico di oggi è la completa mancanza di sbocchi commerciali o istituzionali per le artiste dagli inizi alla metà degli anni Settanta», sottolinea la curatrice Linsey Young: «Le opere di Women in Revolt! che toccano apertamente temi politici, domestici, fisici o sociali, oltre alle indagini sulle esperienze delle donne lesbiche e nere, erano semplicemente assenti. E non è difficile intuire le ragioni dell’ostilità verso quello che veniva definito all’epoca “male artocracy”, artecrazia maschile».

 

"Tough! My Message to the Women of Our Nation”, 1979, del See Red Women’s Workshop

 

Ma mentre l’establishment artistico di allora marginalizzava le artiste mettendo in atto un vero e proprio ostracismo contro di loro, le donne proseguivano nel loro impegno, con coraggio e lungimiranza. Come nota lo stesso team curatoriale: «Il femminismo erroneamente ridotto a fenomeno politico in realtà è stato - e tuttora è - anche un movimento culturale che ridefinisce l’arte, la letteratura e la cinematografia... per porre fine non solo alla discriminazione contro le donne ma per riconoscere le ingiustizie palesi sulla razza, classe e sessualità. Queste due forme di attivismo, politico e culturale, si sono creativamente intrecciate».

 

Perché se la componente artistica è decisamente dominante nell’esposizione “Women in Revolt!”, la sua valenza storica e sociale è indubbia. E rende la mostra attuale e necessaria: come dimostrano temi e richieste rappresentati. E ancor lontano dall’essere risolti.