Stile e ambiente

Dalla Haute couture alla fast fashion: la moda viene dalla terra

di Nicola Zanella   23 novembre 2023

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Sfilata di Stella Jean nel quartier generale della Fao

La stilista Stella Jean, un gruppo di artigiane tagike e peruviane, un branco di Alpaca. Un progetto Fao intreccia grandi brand e mondi lontani. Rafforzando comunità remote, in pericolo

L’innocua maglietta di cotone, rossa o bianca, forse blu Cina o blu Estoril, che avete indosso mentre leggete questo articolo, che avete pagato 15 euro e che vi durerà ancora un paio di lavaggi a 90 gradi, per produrla ha richiesto circa 2.700 litri d’acqua. Quell’innocente, candido e morbido batuffolo di cotone è il prodotto della pianta del cotone, un essere decisamente idrovoro.

 

Ecco quindi che la moda e i suoi tessuti, dall’haute couture al fast fashion, hanno un legame intrinseco ma spesso ignorato con l’agricoltura: lana mohair, cotone, canapa o coniglio d’angora sono in fondo tutti prodotti della terra tanto quanto i cavoletti di Bruxelles. Questo legame è alla base del progetto della Fao Fashion for Fragile Ecosystems, che intreccia mondi e storie lontani: il suo ideatore, Giorgio Grussu, visionario funzionario Fao e coordinatore dei progetti del segretariato della “Mountain Partnership”, la talentuosa stilista Stella Novarino in arte Stella Jean, e ancora un gruppo di artigiane tagike e peruviane e un branco di Alpaca, bianchi, neri e albicocca delle Ande.

 

Fashion for Fragile Ecosystems ha come scopo quello di rafforzare comunità ai margini e in pericolo, dal Caucaso alle isole del Pacifico, portandole a un’indipendenza economica e produttiva tramite la valorizzazione dei saperi ancestrali di cui sono i custodi, saperi che vengono così resi spendibili all’interno del fashion system internazionale. La messa a terra del progetto è cominciata durante il lockdown quando Stella Jean inizia a lavorare con un gruppo di artigiane Tagike chiamato Topchou che usando motivi decorativi tradizionali creano tessuti, tappeti, vestiti dai colori sgargianti. Per la sua collezione autunno-inverno 2021/2022 Stella Jean presenta una capsule collection nata proprio dalla collaborazione con il collettivo Topchou, design italiano e design Shyrdak, uniti, nella stessa gonna: ed è stato subito un successo di vendite, con tanto di plagi ed appropriazioni da parte di altri marchi a sancirne l’impatto. Una comunità remota e dimenticata entra così a far parte della catena globale in cui si crea valore dimostrando quanto il patrimonio culturale di un popolo può diventare il suo stesso volano per uno sviluppo duraturo.

 

La capsule collection di Stella Jean, per l’autunno-inverno 2022/2023, è stata presentata direttamente all’interno della sede romana della Fao, protagonisti in questo caso dei “colli” realizzati con la lana degli alpaca in collaborazione con il collettivo Threads4Dreams. Qui tutto comincia a Tolconi, una località arroccata a 4.800 metri sulle Ande peruviane, lassù non può crescere neanche una melanzana, l’allevamento è l’unica attività produttiva possibile, e infatti si allevano gli alpaca, preziosi per la loro lana calda e pregiatissima. Ancora una volta sono le donne, le “alpaquereas”, ad occuparsi di questa attività fin dalla notte dei tempi. Fornire al mercato internazionale la fibra grezza ha un valore minimo, ma grazie alla stilista e al programma Fao queste donne hanno avuto la possibilità di sviluppare il know-how per creare un prodotto finito, aumentando in maniera esponenziale il valore economico del loro lavoro, un’esperienza trasformativa e con benefici a lungo termine. Gli effetti sono stratificati e viene protetta anche la biodiversità: i grandi brand internazionali tendono a preferire i filati degli Alpaca Bianchi, a Tolconi si allevano anche Alpaca marroni o pezzati, nessuna discriminazione sul colore del pelo.

 

Il progetto funziona, è una sfida stimolante, emozionante e toglie pure alla parola sostenibilità l’insostenibile pesantezza che l’abuso e l’utilizzo improprio le hanno inflitto, ridandole fascino. La sfida viene colta da altri stilisti e da altri esponenti della moda italiana che ne capiscono le potenzialità per accedere a nuovi saperi tecnici, nuovi codici espressivi e ad un concetto più vero e profondo di economia circolare. Vivia Ferragamo fra qualche mese partirà per il Guatemala alla scoperta delle creazioni locali, Antonio Marras ha scelto come destinazione la regione Himalaiana dell’Uttarakhand, in India. Stella Jean, come terza tappa andrà in una zona di confine bellicosa nell’Est Europa, e avanti il prossimo. In un progetto che non sembra porre grandi limiti alla scalabilità.

 

Difendere la proprietà intellettuale dei popoli indigeni sul loro patrimonio culturale è un altro tema di cui il progetto Fashion for Fragile Ecosystems si fa paladino, tema prioritario per evitare appropriazioni depauperanti, cosa che accade spesso: nella collezione primavera-estate 2019 era scoppiato il caso di MaxMara che aveva utilizzato pattern tipici del popolo Oma nel Laos, una volta scoperto il plagio è pure partita la campagna mediatica in difesa degli Oma: #MaxOma.

 

La maglietta, pagata 15 euro, che ha risucchiato 2.700 litri d’acqua per essere prodotta, una volta esaurita la sua breve vita nel vostro armadio, con molte probabilità finirà ammassata nel deserto dell’Atacama, ironicamente, uno dei luoghi più aridi della terra, dove neanche un Alpaca potrebbe sopravvivere.