Un banda di ladri di reperti guidata da un giovane con un dono speciale. Nelle mani della regista il mito riprende vita

Orfeo è un giovane spilungone inglese addormentato su un treno che si porta addosso il puzzo della galera e un dolore segreto. La sua Euridice appare solo di sfuggita e ha il volto dolce di Yle Vianello, l’ormai ex-ragazzina del primo film di Alice Rohrwacher (“Corpo celeste”, 2011), ma questo lo capiremo più avanti, confortati dalle note dell’“Orfeo” di Monteverdi. Per ora Orfeo, al secolo Arthur (Josh O’ Connor), torna al suo colorito microcosmo di tombaroli che un po’ lo temono un po’ lo sfruttano.

 

Arthur infatti ha un dono: “sente” il vuoto sotto i suoi piedi. Non è un dono indolore. Gli inferi gli parlano, lo chiamano, ribaltano l’inquadratura come ad assumere il punto di vista dei sepolti. Ma i tombaroli, simpatici e spavaldi, hanno occhi solo per i tesori celati in quelle tombe. Contentandosi di pochi spicci perché siamo negli anni 80, il traffico internazionale di opere d’arte va a gonfie vele; e quei remoti discendenti degli Etruschi forse credono di riprendersi qualcosa che è loro, violando da ribelli le leggi dei padri.

 

Tutto questo però è il nucleo profondo, il bandolo di una matassa sbrogliata mescolando ad arte i toni e i formati più diversi. Ci sono nobili dimore cadenti, tiranne in sedia a rotelle (Isabella Rossellini), l’utopia di un mondo al femminile, una brasiliana di nome Italia che insegna ad Arthur come gesticolare da italiano (Carol Duarte, scoperta nel bellissimo “La vita invisibile di Euridice Gusmao” guardacaso), la modernità che incombe e divora ogni memoria (la centrale di Montalto di Castro), un cantastorie che ogni tanto commenta e riassume (Valentino Santagati).

 

Insomma tutta la capacità di interrogare i grandi snodi del presente scoperta nei film precedenti di Alice Rohrwacher, con quel tono particolarissimo tra il buffo e il trasognato che è solo suo. In un generoso accumulo di figure e di idee che ogni tanto si vorrebbe più controllato, a rendere il tutto ancora più incisivo ed emozionante. Il nome che porta protegge Alice dal diventare un aggettivo (“rohrwacheriano”, come felliniano...). Ne approfitti.

 

LA CHIMERA
di Alice Rohrwacher, Italia-Francia-Svizzera, 134’

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