Sin dalla gioventù è stato fedele al palcoscenico: ««Il cinema è bello, ma non scherziamo… il teatro non morirà mai». «La mia fortuna? Avere avuto maestri come Strehler»

Se c’è una cosa che Gabriele Lavia – attore e regista, oggi 81enne – non ha mai perso col passare degli anni è la sua fedeltà verso un grande amore: il teatro. In fondo, non è cambiato molto da quando, adolescente, restava incantato di fronte a spettacoli che dai palchetti gli apparivano in miniatura. Col tempo quel giovane spettatore ha iniziato ad attraversarlo il palco, ad abitarlo, come attore e come regista, e così l’elenco degli spettacoli allestiti è diventato sempre più lungo.

 

Lavia è un infaticabile lavoratore e anche nei giorni di pausa dalla tournée di “Un curioso accidente” – il nuovo spettacolo prodotto da Effimera, Teatro di Roma, Teatro della Toscana – dedica le sue giornate allo studio, nella sua casa romana. «Da quando fui ammesso all’Accademia d’Arte drammatica Silvio D’amico non ho più lasciato Roma, anche se tante volte ho pensato di andare via. Ma ormai credo che morirò qui». Le sue origini sono a Catania ed è proprio in quella città che tutto è cominciato.

 

«Quando ero bambino abitavo in una casa molto grande, dove vivevo con mamma, papà, i mie fratelli e con i nonni. In quel periodo, ricordo che una compagnia di teatro veniva a provare a casa nostra, nel “salotto blu”, che a me pareva grandissimo. Ho scoperto poi che stavano provando “La disgrazia di essere morto” o “La disgrazia di essere vivo”, non ricordo esattamente il titolo, e io me ne stavo in un angolino a osservare. Avevo tre anni. Ricordo a memoria la prima battuta: “Le angurie…di questa stagione…sono micidiali!”».

 

Nato a Milano per caso («Mio padre si ammalò in guerra, in Grecia, e lo portarono all’ospedale militare del capoluogo lombardo»), è nella Sicilia del dopoguerra che Lavia ha vissuto la sua infanzia ed è lì che è nato il suo amore per il teatro.

 

«Un giorno mio padre, che non aveva il senso del denaro, trascinò tutta la famiglia in aereo per andare al Teatro Biondo di Palermo a vedere il grande Gino Cervi in “Cyrano de Bergerac”. Quando vado al Biondo faccio sempre un pellegrinaggio in quel palco di second’ordine da cui il palcoscenico mi sembrava piccolissimo. Avevo tre anni e feci i capricci tutto il tempo, tanto che mia madre mi disse: “Non ti ci porto più” e mi mise anche in castigo fuori dal palchetto. Però mio padre, che era un gigante alto due metri, prese per mano me e gli altri due fratelli (il terzo doveva ancora nascere) e andammo a trovare Gino Cervi nel suo camerino. Bussò, salutò e disse: “Bambini, il signore è il grande Gino Cervi”. Lui, nella sua vestaglia rossa, si chinò, ci diede un buffetto, richiuse la porta e noi ce ne andammo».

 

Ma c’è un’altra città, oltre a Catania, con cui Lavia mantiene un legame stretto ed è Torino. «A un certo punto a mio padre, che lavorava al Banco di Sicilia, diedero due possibilità di scelta: trasferirsi a Torino o a New York. I miei discussero per più di un mese, mentre noi fratelli avevamo deciso in un nanosecondo e già immaginavamo i cowboy… Ma la decisione che presero i miei genitori fu quella di andare a Torino». E se fosse cresciuto a New York che cosa sarebbe cambiato? «Ah, se fossi cresciuto a New York avrei una bellissima pizzeria e cucinerei gli spaghetti con le cozze, sarei miliardario probabilmente. O forse lavorerei al Banco di Sicilia. A Torino però ho conosciuto degli amici con i quali andavo tutte le sere a teatro, non mi facevano neanche pagare il biglietto al Carignano, che allora era un teatro privato. Dal palco reale ho visto tutti gli spettacoli, uno in particolare fu magnifico: “Vita di Galileo” di Giorgio Strehler, lo spettacolo più bello che io abbia mai visto nella mia vita. Andai a vederlo con Piero Fassino, che più o meno aveva la mia età. Frequentavamo un gruppo di amici che passavano le loro serate a teatro».

 

“Vita di Galileo”, anni dopo, è stato allestito da Lavia stesso. Fu una delle sue più belle regie. «Credo sia stato il mio spettacolo migliore, ma era talmente costoso che lo hanno visto in pochi. Lo avevo dedicato a Strehler e gli attori sapevano che stavano facendo qualcosa di speciale e importante. Da allora non mi spaventa più nulla».

 

Giorgio Strehler è stato uno dei suoi maestri, assieme a Giuseppe Patroni Griffi, Marco Sciaccaluga, Luigi Squarzina. «Ho avuto la grande fortuna di lavorare con Strehler e anche di diventare suo amico. Conservo ancora qualche bigliettino che mi mandava alle prime. Lui voleva dirigere “Amleto” e affidarmi la parte, ma alla fine non lo ha mai fatto. Mi diceva: “O si crede negli spettri o non si crede. Io non ci credo, quindi non posso fare Amleto, chi è questo spettro?”. Peccato, avrebbe fatto l’Amleto più bello di tutti i tempi, era il più grande di tutti. Questo non glielo perdono».

 

Gli autori classici sono sempre stati la passione di Lavia: Sofocle, William Shakespeare e soprattutto Luigi Pirandello, di cui ha allestito molte opere, per esempio “I giganti della montagna”. «Quando decisi di allestirlo trovai un libro di mia nonna in cui la parte di Cotrone era sottolineata a matita. Mia nonna, Carmela Martinez de la Rosa, era una grande lettrice, figlia di un intellettuale. La considero il mio angelo protettore, due sue foto sono qui nel mio studio. Quel libro sottolineato l’ho preso come un portafortuna e “I Giganti” credo sia stato lo spettacolo migliore che io abbia mai fatto, perché sono siciliano, assieme a “Vita di Galileo”».

 

E poi c’è Carlo Goldoni, a cui ha dedicato l’ultimo spettacolo, “Un curioso accidente”, attualmente in tournée. «Goldoni è un autore gigantesco. Mi piace sempre portare in scena testi poco conosciuti. In “Un curioso accidente” accade un fatto rivoluzionario: una giovane fanciulla decide di sposare chi vuole lei, uno straniero pezzente. All’epoca era uno scandalo».

 

Nello spettacolo è stata aggiunta una battuta: «Il mondo è finito». Forse questo lavoro dice qualcosa anche di noi. «Dico quella battuta, che non è di Goldoni, fuori dal palcoscenico. Quando vedo quello che succede nel mondo sono molto amareggiato, addolorato. Non riesco a credere che si possa arrivare a simili orrori in guerra. Non ci può essere perdono per chi uccide bambini e donne». E poi aggiunge: «Noi stiamo attraversando un’epoca strana, sentiamo spesso di uomini che uccidono le donne. Indicano che c’è un allarme: la caduta dell’uomo, come genere maschile. Ma questo si avverte anche camminando per strada. Ci sono tanti segnali, vedo cose che sono dei piccoli allarmi. Sono sempre stato attento a come si comportano gli altri, li sbircio. Io non copio, rubo, come diceva Picasso».

 

Sono messaggi che non vengono affidati, però, a testi di drammaturgia contemporanea, mai allestiti. Perché? «Non ce l’abbiamo un Pirandello, non è l’epoca della drammaturgia. Per fortuna il teatro non è il testo scritto, ma un attore che fa il testo scritto. Testo e spettacolo sono lontanissimi tra loro. La scrittura oggi si è dedicata più al cinema e alla tv».

 

Con Federica Di Martino, sua moglie dal 2015, lavora spesso. Vita privata e professionale sono strettamente intrecciate, dunque. «Quando si lavora si lavora, cerchiamo di essere meno peggio che si possa. In fondo recitare è questo: cercare di essere meno peggio possibile, essere bravi è impossibile, perché è troppo difficile». Con lei non ha figli, ma ne ha avuti tre dalle mogli precedenti: Lorenzo, nato dal primo matrimonio con l’attrice Annarita Bartolomei, Maria e Lucia, nate dal secondo matrimonio con l’attrice Monica Guerritore. «A un certo punto i figli crescono e si fanno la loro vita. Ci vediamo ogni tanto e con enorme gioia, ho i primi nipotini e per me sono una grande felicità. Li amo pazzamente, una in particolare mi ha rubato il cuore. È venuta a vedermi alle prove. Mia figlia le aveva detto: “Guarda che il nonno fa un lavoro strano…”. E lei si è messa a spiarmi tra una fila e l’altra di poltrone, mi ha dato tanto amore questa piccina».

 

E il cinema? Ci sarebbero mille cose da chiedere, ma Lavia deve scappare a un recital di sua moglie. «Il cinema è bello, ma non scherziamo… Il teatro è la cosa più importante che l’uomo ha inventato, cioè raccontare l’uomo attraverso l’uomo davanti all’uomo. Il teatro non morirà mai».