Giosetta Fioroni e Piero Dorazio. Mimmo Rotella e Mario Schifano. E i loro sodali negli Usa. Una retrospettiva nella Grande Mela rende omaggio a un periodo di fervidi scambi con gli Stati Uniti. In nome dell’arte per tutti, “al sole”

«L’arte deve vivere al sole, nelle piazze, tra il popolo!», recitava il manifesto dell’ODA (Oficina de Arte), sottoscritto da Gastone Novelli (Vienna 1925-Milano 1968) durante un suo soggiorno in Brasile. Fu in quel Paese – come ricorda in “Scritti 43/68” (Nero edizioni) - che iniziò a spostare la sua ricerca pittorica sull’astrazione geometrica. Prima c’era stata una fase espressionista, testimoniata dai dipinti esposti nel 1950 alla sua prima personale italiana al Teatro Sistina, a Roma. Qui era tornato a vivere cinque anni dopo, inserendosi nell’ambiente culturale della città grazie all’amicizia con Emilio Villa, Corrado Cagli e Achille Perilli.

«Con Perilli c’era un sodalizio che, se si vedeva poco nella pittura, era totale sul piano della condivisione intellettuale», ci spiega il figlio Ivan Novelli, presidente di Greenpeace Italia e responsabile dell’archivio paterno.

«L’aspetto fondamentale, che oggi non c’è più, è l’amicizia tra gli artisti, la condivisione di una vita che andava da piazza del Popolo agli studi e alle abitazioni, in Italia (Saturnia compresa, dove Novelli fece costruire una casa che divenne il luogo d’incontro con gli amici scrittori e artisti, ndr) e nel mondo», aggiunge. «Insieme gli amici sostenevano l’importanza del ruolo che l’arte doveva svolgere al di fuori degli spazi istituzionali e al servizio delle grandi masse e del paesaggio urbano». Un’arte per tutti, dunque, en plein air, ma soprattutto “al sole”, il sole italiano. Ivan Novelli è tornato da poco dalla Grande Mela dove la David Zwirner Gallery ospita “Roma/New York 1953/1964”, un’esposizione a cura di David Leiber che mostra gli effetti di quegli scambi, contaminazioni e contatti tra gli anni Cinquanta e Sessanta fra gli artisti. New York chiamò Roma e Roma rispose quasi intimorita, ma creando quel giusto mix tra il nuovo e vecchio, tra trasformazioni e antichità, tra consumismo sfrenato della pop art e un’espressione artistica più legata a gesti e materie. Due mondi distanti, ma uniti da una linea sottile quanto resistente, costruita grazie a scambi e confronti a colpi di estetica, etica, gesti e intelletto.

 

Già Afro Basaldella, nel 1950, si recò negli Stati Uniti iniziando una ventennale collaborazione con la Catherine Viviano Gallery, mentre Piero Dorazio e Giuseppe Capogrossi lavoravano con la Wittenborn One-wall gallery e con Leo Castelli. Alberto Burri intanto era omaggiato con la personale alla Stable Gallery di Eleanor Ward dopo un’esperienza come prigioniero di guerra in Texas. Dall’altro lato, l’Italia attirò diversi artisti newyorchesi, tra cui Philip Guston, Franz Kline, Willem de Kooning, Rauschenberg, Salvatore Scarpitta e Cy Twombly, protagonisti alla Galleria dell’Obelisco di Irene Brin e Gaspero del Corso o alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. Rauschenberg, accompagnato dall’amico Twombly, visitò nel ‘53 lo studio di Burri, della cui arte rimarrà influenzato, e quattro anni dopo, su suggerimento di Toti Scialoja, scelse Roma come città in cui vivere e in cui trovare nuova ispirazione. Scambi e confronti erano continui. Si pensi agli ingressi di elementi dalla sfera dei consumi o dalla dimensione urbana di matrice americana nelle opere di Angeli, Festa, Fioroni, Rotella e di Schifano che nel ‘62 espose da Sidney Janis. E ancora, ciliegina sulla torta che consacrerà la pop art americana: la vittoria di Rauschenberg del Leone d’Oro a Venezia nel 1964. «Sia in Italia che in America, l’arte funge da riscatto nazionale, proponendosi come simulacro di vita, capace di innescare una discussione sui malumori di una società votata alla tecnologia e al marketing dilaganti», disse Germano Celant: «Fu tra il 1945 e il 1964 che l’arte italiana si rivolse a quella americana nei confronti dei suoi ricercatori, collezionisti e mercanti e, allo stesso modo, gli artisti americani si concentrarono su una cultura le cui radici e la cui storia non potevano essere cancellate dall’era fascista».

 

Celant parlò così nel 1993, in occasione della fortunata mostra “Roma-New York: 1948–1964” da lui curata alla Murray and Isabella Rayburn Foundation: quella odierna (visitabile fino al 25 febbraio) ne è un omaggio. Le opere “Sacco e oro” e “Rosso, Nero” di Burri sono in pole position, poco distanti da “Integrazione n. 7” di Carla Accardi, “United States of America” di Franco Angeli, i due quadri di Novelli (“La totale estinzione” e “Cose da conservare”) e “Liberty” di Giosetta Fioroni. Si resta abbagliati dal “Giallo (Totale)” di Piero Dorazio: un sole tutto italiano, segno di una rivincita appena cominciata.