Arabopolis
Ramy Essam: «La rivoluzione di Piazza Tahrir canta ancora»
Ha scritto la canzone simbolo della “primavera araba” del Cairo. Ed è in esilio in Svezia da quasi dieci anni. Ma nel suo spettacolo invita a resistere. E a sognare la libertà. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica
Ramy Essam è tornato. Il cantante egiziano che è diventato il simbolo della “primavera di Piazza Tahrir”, scelto nel 2020 da Amnesty International e dal Club Tenco per il premio Grup Yorum, intitolato alla band turca che si ribellò al regime, ha riportato in Italia lo spettacolo scritto per Babilonia Teatri, con Valeria Raimondi e Enrico Castellani. “Ramy The Voice of Revolution” (in tournée fino a fine mese da Verona a Bolzano, da Vicenza a Udine, con due date a Milano il 21 e 22 febbraio) mischia canzoni e testi in prosa per raccontare la rivolta del 2011: la passione di un intero popolo e la voglia di cambiamento che resiste alla violenza con cui il regime, sopravvissuto a se stesso, continua a lottare contro la speranza di libertà. Una speranza che Essam rivendica in questa intervista.
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Può raccontarci come è nato lo spettacolo, e come è stato costruito?
«È il risultato di un lavoro di tre anni. Lo abbiamo rimandato per la pandemia e l’anno scorso siamo riusciti a farlo per la prima volta a Prato. È stato un processo di collaborazione con Enrico e Valeria di Babilonia Teatri: ci siamo incontrati diverse volte per costruire la storia intorno alla politica e alla rivoluzione, e le connessioni di quello che è successo in Egitto con l’Italia e con il resto del mondo».
L'Italia ha un legame speciale con le lotte dei giovani egiziani - che il governo affronta ogni giorno e da molti anni con violenze, carcerazioni e torture - a causa della tragedia di Giulio Regeni e del drammatico processo a Patrick Zaki. Lei come ha conosciuto le loro storie, e cosa ne pensa?
«Quello che è successo a Giulio Regeni è stato uno shock per tutti noi che lottavamo contro la dittatura perché ci ha mostrato che anche avere un passaporto europeo non ti metteva al riparo dalla violenza, come noi pensavamo fino a quel momento. Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto migliaia e migliaia di giovani che hanno affrontato quello che è successo a Giulio e a Patrick: per questo posso capire bene il dolore e la sofferenza dei loro amici, della loro famiglia. E dal momento che io lotto per tutti i miei amici e compagni che sono morti per la nostra causa o che sono in carcere in questo momento, lotto anche per Giulio e Patrick. Il governo italiano è stato una delusione; speravo che si sarebbe comportato meglio, che non avrebbe rinunciato ai diritti di Giulio per i vantaggi dei contratti con il regime egiziano, è davvero una vergogna».
Lei suona rock, una scelta rara tra i musicisti egiziani. Come si è sentito in Egitto rispetto ad altri musicisti della sua età? E ora che vive in Europa, la scelta di un genere musicale occidentale la aiuta?
«In effetti sì, il fatto di aver scelto il rock mi ha sempre messo in una situazione diversa dal campo della musica egiziana perché non ci sono molti altri musicisti come me, e questo, unito al fatto che nelle mie canzoni c’erano messaggi politici, mi ha messo in una situazione un po’ isolata. Il rock è stato importante perché è un ottimo sistema per permettere alle persone di esprimere la propria rabbia e di controllarla in un modo sano, e noi ne avevamo davvero bisogno. Poi quando ho cominciato ad andare in tour nel mondo il fatto di aver scelto il rock è stato un bene perché mi ha permesso di entrare facilmente in contatto con un pubblico che amava quel genere musicale. Allo stesso tempo però io non suono rock classico: è mischiato con culture, ritmi e beats tipici dell’Egitto e del Nordafrica, questo fa sì che io possa portare qualcosa di nuovo e di originale alla scena musicale. Per questo chi viene a sentire lo spettacolo lo apprezza perché è la musica che conoscono, in un certo senso, ma è anche qualcosa di diverso».
Si dice che una sua canzone abbia fatto dimettere Mubarak, ma poi è arrivato Al Sisi e la situazione non è migliorata (e lei ha fatto una nuova canzone per denunciarlo). E oggi com’è la situazione in Egitto?
«La situazione è terribile, si sta peggio di prima della rivoluzione. Ed è per questo che molti pensano che abbiamo perso, che la rivoluzione è fallita. E molte persone che soffrono e che non hanno mai creduto nella rivoluzione, guardando indietro si dicono che sarebbe stato meglio se noi nel 2011 non avessimo fatto nulla. Ma io credo che abbiamo fatto quello che era giusto. E anche se in questo momento le cose vanno peggio, è solo questione di tempo: in ogni rivoluzione c’è un momento in cui le persone sono stremate e le cose vanno peggio, prima di cominciare a migliorare. Dobbiamo credere in quello che abbiamo fatto, dobbiamo continuare a lottare a qualsiasi costo».
Il governo egiziano negli ultimi anni ha preso di mira un intero genere musicale, il Mahraganat. Perché è diventato un simbolo di ribellione? C'è qualcosa nelle parole o nel ritmo, o un riferimento a una tradizione inaccettabile per il potere?
«La prima ragione per cui il governo è contrario al Mahraganat è che tutte le dittature detestano quello che non possono controllare. E un fenomeno che diventa un successo come il Mahraganat è proprio quello che il governo teme. È un genere nato localmente, viene da quartieri poverissimi ed è diventato così popolare da raggiungere tutti: e il governo non ha nessun potere di tenerlo sotto controllo, e non riesce a capirlo. Anche da un punto di vista economico sfugge completamente agli interessi di chi ha il potere, per questo sono usciti di testa: è diventato popolare, potente ed è totalmente fuori dal loro controllo. Non possono usarlo per i loro interessi e per la loro propaganda, quindi lo combattono. E c’è un altro aspetto importante. Il Mahraganat non ha messaggi politici, non attacca direttamente il regime ma i musicisti parlano senza censure della loro vita quotidiana, delle difficoltà e delle sofferenze di chi abita in Egitto oggi. E in questo modo puntano i riflettori sulle condizioni difficili in cui vivono gli egiziani, ed è una cosa che il regime cerca di nascondere».
Da molti anni lei vive in Svezia: difficile immaginare un Paese più diverso dall'Egitto. Come è cambiata la sua vita? Immagino lei sia diviso tra la voglia di adattarsi alla nuova vita e il sogno di poter tornare in Egitto: vuol dirci qualcosa su questo aspetto, che, per motivi diversi, accomuna l'esperienza di molti migranti?
«Naturalmente ogni posto ha pregi e difetti. Vivere in esilio non è un’esperienza facile per nessuno, e quello che accomuna tutti noi migranti è che se la vita nel posto da cui veniamo fosse migliore e più sicura nessuno lascerebbe la propria casa. Io ho dovuto lasciare l’Egitto nel 2014 e sono arrivato in Svezia perché ero in pericolo, mi avevano arrestato già due volte. Nei paesi scandinavi ho trovato molti di quei valori e di quei diritti umani per i quali eravamo scesi in piazza. Le cose che vogliamo ottenere in Egitto e nel Medio Oriente io le vedo e le vivo ogni giorno in Svezia. Questo mi ha fatto capire meglio per cosa stavo lottando, e quello che possiamo ottenere».
E la sua vita di musicista come è cambiata?
«Beh, dal punto di vista musicale, in Svezia posso suonare in sale di registrazione molto migliori, ho contatti con ottimi musicisti. Questo mi ha aiutato a migliorare come artista. Da quando sono in Svezia e sono libero di viaggiare e di suonare in tanti Paesi diversi, mi sono reso conto che ovunque io vada trovo persone che lottano per ragioni simili a quelle per cui combattiamo noi in Egitto, anche se su scala molto diversa. Combattiamo tutti per le stesse cose, condividiamo passioni e sofferenze. Questo mi ha fatto capire che la mia lotta contro il regime è importante a livello internazionale, è connessa con il resto del mondo: non me ne rendevo affatto contro quando ero in Egitto. Anche questo ha cambiato le mie canzoni e il mio rapporto con la musica. Ma per tornare alla domanda precedente, malgrado tutto questo non smetto di pensare al giorno in cui potrò tornare in Egitto: casa mia mi manca immensamente».