Le sei anime di Sanremo, dal bianco e nero al miracolo Amadeus

Si fa presto a dire Festival. Da Mario Merola a Bono la kermesse non è mai stata uguale a sé stessa, sino a riuscire a riportare l’attenzione sulle canzoni. Un critico che lo conosce bene ne ripercorre le evoluzioni

Non fatevi fregare. Se mai qualcuno dovesse chiedervi cosa ne pensate di Sanremo, o peggio ancora: che cos’è Sanremo? Non rispondete, o meglio chiedete di definire meglio. Di quale festival si parla? L’inganno è tutto qui, il nome è sempre quello, ma di festival ce ne sono stati tanti, diversi e spesso neanche tanto conciliabili tra di loro.

 

C’è quello degli esordi, tutto radio e languide presentazioni dove contavano davvero solo le canzoni e a cantarle erano solo in tre, tanto che nel 1952 fu possibile che Nilla Pizzi si piazzasse ai primi tre posti con tre diverse canzoni, c’è il misero inesistente Sanremo di metà anni Settanta, dimenticato da tutti e perfino dalla Rai. 

C’è la favola degli anni Sessanta, l’età dell’oro, quando c’erano le canzoni migliori, quelle che ancora oggi sono pezzi pregiati del nostro immaginario canoro, c’è quello degli anni Ottanta quando si votava con le schedine del Totip e vincevano sempre Al Bano e Romina e i Ricchi e Poveri. C’è stata l’era del baudismo e prima ancora quella di Mike Bongiorno, c’è stato il festival “modernista” di Fazio, quello distaccato e sarcastico di Raimondo Vianello, c’è stato l’unicum del festival 1967 dove uno dei cantanti in gara, Luigi Tenco, si è ucciso la notte in albergo dopo l’esibizione e la sera dopo la finale si è svolta ugualmente come se niente fosse, tanti diversi, opposti, incomunicabili Sanremo, compreso l’ultimo, quello di Amadeus, quello della missione che sembrava impossibile, ovvero riportare le canzoni al centro dell’attenzione, per assurdo l’unico risultato che ormai sembrava irraggiungibile pur trattandosi del sedicente, autoproclamatosi festival della canzone italiana.

Che questo dato faccia scalpore la dice lunga sulla spuria, ingannevole e camaleontica natura della manifestazione più amata e odiata della storia dello spettacolo. Notiamo alcune coincidenze. Alla fine degli anni Settanta il festival era moribondo, prossimo all’estinzione, poi cominciò gradualmente a risalire, nel 1981, con attenzione ancora scarsa ma più vigile, la Rai ricominciò a investire sul festival, vinse Alice con una canzone firmata da Battiato e si percepì di nuovo il brivido della canzone da amare.

Ma il punto era un altro. La verità è che le canzoni non erano più così decisive. Era partita l’era della concorrenza, erano cominciate le trasmissioni di Canale 5 che iniziò a rubare pezzi pregiati alla tv di Stato. Improvvisamente Sanremo diventò una risorsa da sfruttare e questo spiega perché per molti anni il festival è stato concepito essenzialmente come un programma televisivo.

Di molte edizioni più che le canzoni ricordiamo gli exploit di Benigni, gli scandali, ricordiamo la pancia finta della Bertè, l’arrivo di Madonna, le irruzioni, il trio Marchesini-Solenghi-Lopez. Altri tempi altri Sanremo. Nella sua infinita capacità di adattamento e sopravvivenza il festival è riuscito a mutare, a cambiare per rimanere se stesso, a cambiare ancora, fino a a ritornare al punto di partenza.

Al di là delle diverse conduzioni possiamo identificare almeno sei diverse fasi con sei diverse anime, la prima dal 1951 al 1957, ovvero quella melodica e radiofonica; dal 1958 al 1971, più o meno da Volare di Modugno a 4 marzo 1943 di Dalla, è l’età dell’oro; dal 1972 al 1981 la decadenza; dal 1981 al 2000 il festival della televisione; dal 2001 al 2016 gli anni di mezzo, interlocutori; dal 2017 a oggi, il ritorno delle canzoni.

Da quando Amadeus, complice anche il trampolino delle precedenti edizioni firmate Baglioni, è riuscito a concentrarsi sulle canzoni, è successo il miracolo: la mattina dopo al bar ci si accapiglia su chi ha cantato meglio, sulla canzone più interessante e sulla peggiore.

A noi addetti ai lavori ci massacrano di domande. Dal negoziante abituale che conosce la nostra professione ora scatta implacabile la domanda: “dottò, ma che dice, ’sto Achille Lauro è un bluff? E Madame?”. Ovvio direte, e invece no, non succedeva da tempo immemore, casomai si parlava del pettegolezzo, del comico, delle papere, delle gaffe, dei retroscena, magari dell’ospite straniero che piratesco e altero passava e se ne andava senza alcun rischio.

Il festival è impossibile definirlo perché a Sanremo c’è stato tutto e il contrario di tutto, l’unico luogo in cui è stato possibile vedere Bruce Springsteen cantare in penombra The ghost of Tom Joad (era il 1996) e Toto Cutugno a cantare L’italiano col Coro dell’Armata Rossa (nel 2013), l’unico inimmaginabile luogo in cui negli anni hanno potuto convivere il più profondo provincialismo strapaesano ed eventi da leggenda del rock come quando i Placebo senza alcun preavviso si misero a sfasciare gli strumenti mettendo in serio imbarazzo la povera Carrà alla sua prima e unica conduzione.

Solo in quel teatro è stato possibile il verificarsi di un cortocircuito che se l’avesse pensato un fantasioso sceneggiatore gli avrebbero dato del matto, ovvero che Bono cantasse dal vivo accompagnato da The Edge alla chitarra, che decidesse di scendere in platea e attraversare il corridoio centrale cantando, proseguendo fino ad arrestarsi di fronte a Mario Merola che stava arrivando (in ritardo) in quel momento, e poi fargli un leggero inchino, un gesto di pura cortesia dovuto anche al fatto che Bono ignorava nella maniera più assoluta chi fosse lo spettatore ritardatario. Bono e Mario Merola nello stesso punto dello spazio-tempo? Possibile solo perché il festival è tutto e niente, perché è stato talmente tante cose diverse da poter contenere di tutto, festival, antifestival e controfestival e provate voi a metterlo in discussione.

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