Attenta al prossimo e dedita alla figlia Daria, affetta da una malformazione gravissima. Prima di morire ha narrato la sua storia nel romanzo “Come d’aria”, ora nella dozzina del Premio Strega

Con Ada D’Adamo ci ha lasciato una persona che non si dimenticherà e non si poteva dimenticare. La conobbi nell’anno 2000, quando lei faceva parte dello staff del Teatro di Roma diretto da Mario Martone e lavorammo insieme a “Poeti a Roma”, una rassegna che curavo. Legammo subito. Ada riuniva caratteristiche la cui coesistenza è rara: attenzione ed emozione, esattezza e animo. Un genere di sintesi che fa fermare a riflettere su cosa sia la grazia. Ada era piena di grazia. Nel lavoro attentissima, precisa, sempre lucida, efficace; ma anche, in modo sobrio, rigoroso e insieme caldo, attenta al prossimo, vigile sulla natura di ciascuno con saggezza, lealtà, se era il caso, autentico affetto. Nello scambio di poche settimane fa in occasione di un mio articolo su “Come d’aria” (Elliot edizioni), il bellissimo esordio narrativo di cui poco prima di morire Ada ha potuto sapere l’ingresso nella dozzina del Premio Strega, di nuovo a distanza di molti anni ho ritrovato lo stesso raro spessore umano. Occhi aperti sugli altri, la loro presenza e consistenza, occhi attenti al prossimo nonostante l’immane dolore e sforzo quotidiano che ormai da molto tempo Ada portava sulle spalle e che ha raccontato con tanta limpida verità nel suo libro. Essere madre di una figlia, Daria, affetta da una malformazione cerebrale gravissima; essere in un secondo tempo anche divenuta una donna in lotta contro un tumore che implacabile ha continuato ad avanzare e l’ha portata via dal mondo, e dai suoi amati cari.

 

Ada danzava, e la danza è stata la sua grande passione – questa anche, vissuta e studiata con animo ed esattezza (tra gli altri, un saggio del 1999 su “Le sacre du printemps”, brillante e acuto). Se il lavoro culturale la appassionava, lo svolgeva però con la disciplina e il necessario distacco che il possedere un altro fuoco le dava. La danza è stata maestra di misura e di passo nella vita, nelle prove molto dure affrontate con lo straordinario coraggio restituito nelle pagine di “Come d’aria”. Conobbi Daria, la figlia di Ada, in un luminoso pomeriggio di tanti anni fa nella loro bella casa all’Esquilino. La delicatezza e l’affetto con cui mi introdusse nella sua nuova tanto difficile vita, l’amore con cui mi presentò la figlia e mi permise di intrattenermi con loro per un breve prezioso momento, quello anche mi toccò il cuore, in un baleno e per sempre. Daria è figlia “magica”, come si legge nel libro, e quella magia la ricordo palpabile, nell’aria (tutto è fatto d’aria, in questa storia così triste).

 

Nel dramma, Ada D’Adamo è restata sino all’ultimo in dialogo con il mondo, un dialogo intriso di una fiducia densa di tali intelligenza e senso della realtà da creare ponti, dischiudere interstizi, stabilire possibilità di contatto concreto. Nella tragedia ha saputo non chiudersi, e questa anche resta una profonda lezione. I danzatori e i coreografi (lei tra di loro) conoscono le leggi di ogni flusso, l’alternarsi di intensità e di pause, di comunicazione e silenzio, di dolore e gioia. La pena, anche quella dell’estrema solitudine in cui come madre di una figlia disabile tante volte si è sentita confinata, Ada D’Adamo non l’ha rimossa, mai: neppure un momento. Fedele alla propria chiarezza mentale, lontana da enfasi, indulgenze o severità eccessive. Solo vera. Capace di quell’autenticità che ha saputo riverberare nella scrittura, e che rimarrà nella memoria di chi ha avuto la fortuna di conoscere Ada, e di quanti conosceranno il dono di leggerla.