Musica di frontiera

La Niña: «Oggi tutti vorrebbero essere figli di Napoli. Spero non sia solo una moda»

di Emanuele Coen   19 aprile 2023

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Sonorità contemporanee, echi della tradizione. Carola Moccia è la voce emergente della scena partenopea. “Non è facile essere donna in un mondo di uomini, soprattutto nel rhythm’n’blues e nell’hip hop. Solo ora comincio a sentirmi parte di qualcosa più grande”

Pino Daniele, Diego Armando Maradona e Massimo Troisi. E poi Totò, Sophia Loren, Nino D’Angelo e così via fino a “Gomorra” e “Mare fuori”.

Napoli celebra i propri miti come nessun’altra città, un eterno presepe popolato di eroi e santi, attori e registi, musicisti e calciatori. Già, il calcio. Tra bandiere e memorabilia, nei vicoli e nelle piazze del centro storico è tutto pronto per la festa più grande: per scaramanzia molti napoletani fingono di snobbare lo scudetto, ma intanto verniciano i palazzi di bianco e azzurro in attesa del matematico trionfo. «Vedo in giro troppo entusiasmo, devono stare tutti molto concentrati perché sennò non la portiamo a casa», scherza La Niña, nome d’arte di Carola Moccia, mentre sorseggia un analcolico in un bar di piazza Bellini, santuario partenopeo dell’aperitivo. Accanto a lei il suo produttore musicale, Kwsk Ninja, al secolo Alfredo Maddaluno.

Cantante, musicista, attrice, La Niña è la voce emergente della nuova scena musicale napoletana, oggi particolarmente presente in classifica (tra gli altri Capo Plaza, Geolier, Luchè). Non è fissata con il pallone, ma vista l’eccezionale circostanza non si tira indietro: «Troppo spesso il calcio ha un valore che va oltre lo sport: vittoria calcistica però non vuol dire vittoria sociale», sottolinea la cantautrice prima di passare al vero tema della nostra conversazione.

È appena uscito “Vanitas” (Sony Music/Columbia Records), il suo primo album dopo l’ep “Eden” e alcune canzoni di successo come “Lassame sta”, incisa con il rapper Gemitaiz, e “Tu”, con Franco Ricciardi, cantautore di lunga esperienza cresciuto a Scampia. La cantante sarà con lui sul palco il 10 giugno per un concerto allo stadio Maradona. «Definirlo neomelodico è riduttivo. È un grande artista che ha avuto l’intelligenza e l’umiltà di evolvere», dice La Niña, che nel suo album anticipato dai singoli “Harakiri”, “Nunn’ o voglio sapé” e “Blu”, in collaborazione con la cantante nu-soul londinese Mysie, mescola ritmi urbani e tribali, melodie mediterranee e sperimentazioni elettroniche. Canta e suona la chitarra, usa strumenti ricercati come un tamburo a cornice senza sonagli, una chitarra romantica del Seicento, un marxophone, simile alla cetra. Il titolo del disco, “Vanitas”, deriva dal latino “vanus” e allude alla caducità come condizione universale.

«Tutte le canzoni del mio disco raccontano la caducità e la disillusione. L’ultima traccia, “Respira”, l’ho scritta dopo aver avuto un attacco di panico, che mi ha fatto riflettere su quanto la vita sia effimera», continua la cantante, che nell’album affronta temi diversi. In “Selenè”, ad esempio, celebra la Luna e la invita a divorare il Sole perché la notte possa regnare al posto del giorno. “Jesce fore, magnate ‘o sole”, canta La Niña. «È un’invocazione, il punto di vista di una donna che si prende il suo posto in un mondo di uomini, una canzone vendicativa e lucida», aggiunge, poi sposta l’accento sulla propria esperienza. «Non è facile essere donna, finora la scena musicale napoletana è stata molto maschile, soprattutto nel rhythm’n’blues e nell’hip hop, ma non è il mio mondo. Io faccio una sperimentazione pop che va in tutt’altra direzione. Solo ora comincio a sentirmi parte di una scena».

L’hanno paragonata a Rosalía e Teresa De Sio ma La Niña guarda altrove, alla cantautrice britannica Fka twigs e alla rapper americana Doja Cat; tra i suoi conterranei venera il capostipite Roberto Murolo e Gilda Mignonette, cantante e sciantosa del teatro di varietà. Canta in napoletano, talvolta in inglese e in italiano, oscilla tra sonorità contemporanee, citazioni di Mozart, riferimenti alla pittura barocca partenopea di Salvator Rosa, riflette sul ciclo perenne di morte e rinascita, passione che l’ha portata a laurearsi in Filosofia all’università Federico II con una tesi sulla filosofa andalusa Maria Zambrano (1904-1991), che coniuga pensiero e poesia. «La scelta del napoletano è necessaria: mi permette di restituire sentimenti con una violenza che solo questa lingua può avere, raccontare il rumore che fanno le emozioni», prosegue: «Tuttavia non voglio che il napoletano diventi una prigione. Il rischio di essere ghettizzata c’è: la lingua di questa terra viene considerata una cosa a parte, mentre dovrebbe essere patrimonio di tutti».

A proposito di miti universali La Niña è cresciuta negli anni Duemila a San Giorgio a Cremano («mia madre ha sempre scritto canzoni, mio padre è stato chitarrista professionista, sono diventata grande tra vinili, Beatles e Emerson, Lake & Palmer»), il paese alle pendici del Vesuvio dove nacque Massimo Troisi. L’incontro con il grande attore, però, non è stato scontato. «Quando ero adolescente avere l’accento napoletano attirava razzismo e discriminazione. Me lo ricordo bene, essere napoletani non era un vanto», racconta la cantante: «Per fortuna il mio fidanzatino ai tempi del liceo amava profondamente la tradizione: in macchina mi faceva ascoltare Edoardo Bennato, mi ha fatto vedere tutti i film di Troisi. Ho compreso la sua grandezza dal primo giorno: ha una capacità comunicativa pari a pochissimi al mondo. Esplosiva, commovente e irripetibile, nel cinema e nel teatro. Sono molto felice di appartenere alla sua città».

Ora le cose sono cambiate, la città partenopea è sulla bocca di tutti. «Oggi Napoli piace a tutti, è la città di cui tutti vorrebbero essere figli. In molti scoprono di avere un nonno napoletano, tutti hanno parenti da queste parti», scherza La Niña, poi si fa seria: «Mi auguro che la mia città resti sempre sotto i riflettori e non sia solo una moda di passaggio».