L’intervista
La ricerca della pace. L’attenzione a una natura fragile. E la tentazione di riflettercisi dentro, metafora del tempo e dello spazio che ha precorso gli autoscatti digitali diffusi sui social. Da Roma a Milano, è l’anno del grande artista, alla soglia dei 90 anni
di Giuseppe Fantasia e Sabina Minardi
Sull’infinito presente riflette almeno sin da quando, riutilizzando vecchi stracci, comprati a chili per ripulire i suoi inconfondibili quadri specchianti, ha affidato a una Venere, simbolo di memoria, il compito di rigenerare ciò che è sul punto di consumarsi. E oggi che il Dart/Chiostro del Bramante di Roma gli dedica una “paradossale collettiva di un solo artista”, “impersonale” di un maestro del contemporaneo, che insegna a “moltiplicarsi nella diversità”, come scandiscono le parole del curatore Danilo Eccher, “Infinity” è il titolo più naturale che si potesse immaginare.
Michelangelo Pistoletto über alles: nella Capitale, a Milano, nei prossimi mesi a Torino, l’invito è a scoprire e a riscoprire la sua arte povera e quelle grandi installazioni che parlano dei temi più importanti del presente: l’ambiente devastato, la pace che non c’è. Il tempo: la sua urgenza più forte, oggi, alle soglie dei 90 anni: la fretta di agire, di predicare bellezza, far germogliare la pace come in una delle sue opere in mostra a “Infinity”: Mediterraneo, Labirinto, L’Etrusco, Love Difference e Autoritratto di stelle, solo per citare qualcuno dei lavori esposti.
Espressioni di un’infinità di modi di fare arte, di vedere e di cambiare prospettiva, leggendo la realtà con le stesse lenti, però: quelle di un artista unico, capace di trasformarsi, mettersi in gioco, raccontare. «Nella diversità, io mi sono moltiplicato», dice nel corso del nostro incontro, in occasione della mostra (che resterà aperta fino al 15 ottobre). Un’esposizione che inizia con un grande specchio dal quale la voce imperiosa dell'artista ammonisce: «Allontanati». Invito, al contrario, a entrare fino in fondo in un percorso di luci e di colori, seguendo un labirinto «che conduce sempre a qualcosa». In un ambiente fluido e dinamico che rispecchia il senso stesso della sua arte, «al centro di una trasformazione responsabile della società»: missione che la sua fondazione, Cittadellarte, attiva a Biella sin dagli anni Novanta, persegue. «Un cambiamento è ancora possibile. Ma solo attraverso una reale pratica della democrazia, che coinvolga i cittadini e le loro organizzazioni».
Questa mostra si intitola “Infinito”. Cos’è per lei, infinito, oggi?
«È l’attimo presente. È l’istante che catturo nei miei Quadri specchianti, ad esempio. Il presente è lo spettatore che si guarda dentro al quadro, ma il momento in cui si vede è diverso dal prima e anche dal dopo, perché l’immagine riflessa non c’era prima né c’è più subito dopo: esiste solo in quell’attimo preciso. E quello spazio del presente è l’infinito, un’immagine che si rinnova sempre, non finisce mai, perfettamente espressa dal simbolo matematico della linea che incrocia sé stessa. Quell’attimo dell'incrocio è l’attimo del presente, in cui esattamente da una parte e dall’altra c’è il passato, e c’è il futuro che diventa a sua volta passato. Mentre il passato diventa futuro».
I suoi quadri specchianti si completano con l’interazione dello spettatore. Alla figura umana, anzi, affida la dimensione del tempo. Quello specchiarsi riflette un’ossessione contemporanea che non poteva prevedere: col selfie tutti ci specchiamo e rimandiamo l’immagine sui social.
«Sì, è proprio così. Nel Quadro specchiante tutti gli spettatori diventano partecipi, nessuno è escluso. Appena tu passi davanti all’opera, entri e ne sei subito parte. È una sorta di selfie continuo, tu sei presente e lo sei assieme agli altri. Chiunque può entrare a far parte dell’immagine che io fisso, e dietro ci sono sconosciuti, c’è la società, l’umanità intera. Come nel selfie, che non resta nel tuo cellulare ma viene immesso nella Rete. Lo specchio è la Rete».
Solo che il selfie è tendenzialmente sottoposto a filtri, a miglioramenti e manipolazioni. Nei suoi specchi entriamo così come siamo.
«In ogni caso ciò che accade con quel gesto è una ricerca d’identità. Che vogliamo far sopravvivere rimandando la nostra immagine al mondo. In gioco c’è un’idea di immortalità, perché l’infinito è immortale. E la memoria va avanti nel tempo e nello spazio».
Nel tempo e nello spazio c’è la fusione tra il primo e il secondo paradiso da lei evocati. E dà origine al Terzo Paradiso, “la terza fase dell’umanità”, connessione tra artificio e natura e garanzia di sopravvivenza. A che punto siamo?
«La terza fase non c’è ancora, ma stiamo tentando di realizzarla. Nella prima fase gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Con la nascita dell’artificio, e con l’immaginazione umana che si trasforma in tecnica, si è sviluppato un mondo artificiale. Quest’ultimo ha creato un progresso incredibile che ha condotto alla scienza di oggi, capace di imprese impossibili prima: prolungare la vita attraverso la chirurgia, viaggiare a velocità inimmaginabile, e così via. In egual misura, stiamo distruggendo il pianeta, anzi lo stiamo “degradando”: perché il pianeta ha il suo percorso, una durata, ma noi ne stiamo accelerando lo spegnimento».
La natura intanto dispiega la sua potenza.
«Enorme, distruttiva. Ma attenzione: quando avvengono deflagrazioni pazzesche, da quegli stessi fenomeni estremi nascono elementi che ricombinandosi su questo pianeta fanno nascere e producono meraviglie. Noi stessi siamo fatti di elementi che nascono dalle disintegrazioni. È come la scissione dell’atomo: l’abbiamo scoperta, usata in modo sbagliato ci distrugge».
In mostra c’è un grande tavolo di vetro. È una delle sue opere più note e più potenti: “Love difference – Mar Mediterraneo”. L’ha realizzata nel 2003 e ci riporta a un’idea di mare comune, il “mare nostrum” attorno al quale i popoli siedono con la loro ricchezza. Vent’anni dopo quel mare è diventato un cimitero, un mare di lutto: oggi realizzerebbe l’opera diversamente?
«No, il Mediterraneo è lo stesso. E l’esigenza di dialogare ancora più forte. Ci sarebbero sempre le sedie intorno, perché i vari Paesi affacciati sul mare lavorino a una comunione di rapporti. Certo, quando l’opera è nata, lo spirito era diverso: intellettuali, artisti, molti di noi si sono ritrovati a Strasburgo per creare il Parlamento culturale del Mediterraneo. C’erano attivatori culturali che creavano rapporti importantissimi oltre le frontiere del Nord Africa, dell’Est, dell’Ovest e per tutta Europa. Ci auguravamo risultati concreti in termini di pace e di benessere, poi tra guerre e Covid i rapporti si sono interrotti. Io sono un sostenitore della Pace preventiva: non si può ricercare la pace una volta che la guerra è scoppiata».
La Pace preventiva, simboleggiata dal labirinto, che evoca il viaggio e la trasformazione, come si persegue?
«Attraverso l’arte e la cultura, capaci di creare un vaccino. Se questa società non ha in sé la cura, sarà sempre la guerra a vincere. Il vaccino culturale deve cominciare dalle scuole, dall'educazione e i giovani devono acquistare la consapevolezza di essere produttori di una cultura vaccinale. Il vaccino è composto delle stesse proprietà della guerra, ma va usato come antidoto all’avidità e alla distruttività della guerra».
Serve un vaccino, dunque. E un dialogo, come suggeriscono le sedie intorno al tavolo. L’importanza della parola è centrale nel suo lavoro, pensiamo all’opera L’Arringatore e alla Grande sfera di giornali. Ha ancora fiducia nelle parole?
«Non possiamo farne a meno. Quando parliamo, ciò che diciamo è frutto di pensiero, di elaborazione e di esperienza. La parola è risultato di una combinazione di cose. Anche quando si mettono insieme due banalità non se ne crea solo una terza, dalla loro unione può nascere il contrario o un equilibrio. È un fatto musicale, una danza, la connessione di elementi che ne producono uno nuovo. Il terzo elemento è quello che unisce e crea l’armonia. L’umanità è un’orchestra e deve trovare la coralità nei rapporti, imparare a gestirla, altrimenti si finisce nel contrasto e si precipita nella guerra. Noi uomini siamo capaci di creare sia i mostri sia la virtù. L’umano ha bisogno di regole, che però devono essere dinamiche e mai definitive: devono ricercare l’equilibro, aggiornarsi e non cristallizzarsi. Io la chiamo “Formula della Creazione”. Ogni atto deve rispondere a questa capacità di abbinare gli opposti in modo armonico».
Lei parla d’amore e ammonisce ad amare le differenze. Lo ha sempre sostenuto, anche quando la società non era così pronta.
«L’amore risiede nell’amare la differenza. Siamo tutti diversi e la bellezza è questo. Purtroppo la nostra è una cultura egocentrica, che tende ad escludere gli altri e quelli che non ci somigliano».
È la direzione che società e politiche nazionalistiche stanno prendendo: polarizzare le differenze, contrapporsi agli altri.
«Per sentirsi coesi. Si creano dei nemici per rafforzare le appartenenze. Basta guardare alla Storia e, appunto, al presente».
Cosa la infastidisce del presente?
«Io non mi riconosco in questa umanità. Se questa è l’umanità, mi infastidisce essere chiamato essere umano. Anzi, ne ho vergogna».
Che momento è questo per lei?
«Vedo in effetti moltissima attenzione verso quello che faccio. Ed è un tempo in cui serve investire sul nuovo».
Il nuovo oggi è molto di ciò che lei ha raccontato in questi anni: la necessità di essere essenziali, il rispetto della natura, il valore del dialogo. Che effetto le fa essere stato un anticipatore?
«Perché parlare al passato? Io guardo al futuro. Dei ragazzi mi hanno chiesto se si può cambiare il mondo con l’arte e se ciò mi rende felice. Io sono felice. Perché non so se riuscirò a cambiare il mondo con l’arte, ma mentre la sto facendo sto già molto meglio».