La scrittrice racconta i momenti delicati dell’esistenza e dell’essere donna. Fino al carcinoma, di cui ha parlato di recente. Un un libro che fa ridere e piangere, un mosaico interconnesso di storie in cui si innervano nelle vite narrate i temi cari alla scrittrice

Una donna alle prese con i segni della vecchiaia ritrova un guizzo di passione e vitalità in una vita domestica monotona acquistando e contemplando segretamente il cartonato di una pop star coreana, Park Jimin, cantante dei Bts adorati in tutto il mondo, e lo fa a costo di apparire imbarazzante agli occhi delle giovani fan; una ragazza che ha un passato di violenze domestiche calpesta ostinatamente la terra per seppellire un topo fracassato dai calci, cercando così di nascondere proprio sotto quel cumulo di terriccio – senza successo – le percosse di cui è stata vittima, ma ci sono cose che non si possono seppellire; una moglie giovane di un regista famoso ha una vita parallela da amante che decide le regole del sesso e in questa autodeterminazione trova risarcimento a un’esistenza di «contorno», ancillare, dove non contano le sue aspirazioni e i suoi desideri.

Sono dodici le storie del nuovo libro di Michela Murgia “Tre ciotole. Rituale per un anno di crisi” (Mondadori) e hanno tutte una complessità narrativa in cui riflessioni su singole esistenze colte in momenti delicati della vita si fondono con implicazioni sociali e culturali con cui fare i conti.

Una donna odia i bambini – «fasci di bisogni infiniti» e snervanti – ma per affetto, per amicizia, affronta una maternità, sperimentando come l’essere madre non coincida affatto con l’essere gravida; una moglie giovane di un regista famoso ha una vita parallela da amante che decide le regole del sesso e in questa autodeterminazione trova risarcimento a un’esistenza di «contorno», ancillare, dove non contano le sue aspirazioni e i suoi desideri; un’altra donna reagisce con il vomito, quasi fosse un segreto alleato, al dolore di un abbandono da parte di un «merda», ma trova in un rituale di tre ciotole di cibo mangiate a piacimento la propria irriducibile libertà, perché non sono le regole ma i rituali che ci salvano; una scrittrice trova modi suoi, paradossalmente vitali quanto lucidi, per misurarsi con la malattia oncologica nominandola con un termine coreano che coincide col dire coraggiosamente, lucidamente «io sono», perché quel male, come le spiega il medico, è «complice» della sua complessità di individuo («gli organismi unicellulari non sviluppano neoplasie» e non scrivono romanzi); un oncologo, il medesimo oncologo di quest’ultimo racconto (il primo del libro) è tanto razionale nel definire il carcinoma polmonare della paziente-scrittrice quanto inadeguato a fare i conti con la paura del contagio da Covid che lo sovrasta, lo impietrisce, incapace com’è di sostenere la fisionomia di un viso umano di cui ha come perduto memoria in un tempo di facce nascoste dalle mascherine...

Sono bellissimi questi racconti di Michela Murgia che, intrecciandosi tra loro appunto, con rimandi da una storia all’altra, intessono nuovi significati, per cui la vita riscoperta dalla donna innamorata del cartonato diventa una banale passione adolescenziale agli occhi di chi vede quella sagoma nell’immondizia in un racconto successivo.

C’è una più o meno scoperta nota autobiografica che attraversa tutte le storie fatta di riferimenti alla vita reale della scrittrice che allude a momenti della propria esistenza con delicatezza e in un gioco di dissimulazioni che si concede anche stoccate ironiche o autoironiche, come quando la protagonista del racconto “Stato di servizio”, completamente accecata dal culto per l’ordine militare senza cedimenti (e del tutto indifferente ai cosiddetti «effetti collaterali»), definisce «pazza» la scrittrice che ha osato manifestare la propria diffidenza per la divisa, se chiamata a regolare le vite civili.

È un libro che fa ridere e piangere, questo di Michela Murgia, che ha rilasciato un’intervista in cui ha condiviso e reso pubblica la sua malattia, esprimendo la sua posizione sulla morte con grande lucidità. È un libro capace di strizzare l’occhio al lettore o di creare paesaggi affettivi malinconici, come nell’ultimo racconto, dove il congedo da una vita si compie attraverso una festa in cui appesi ai rami della sughereta del giardino sono esposti abiti che ricordano tutta l’eccentricità di una donna tanto ecclettica nel gusto quanto esatta nella definizione dell’amicizia fatta di relazioni non di ruoli, così che quegli abiti esposti perché gli ospiti possano scegliere quale ricordo portarsi via diventano un dono estremo e il distillato di una vita.

Sarebbe un errore definire “Tre ciotole. Rituale per un anno di crisi” una raccolta di racconti. Si tratta piuttosto di un mosaico interconnesso di storie in cui si innervano nelle vite narrate i temi cari alla Murgia autrice di pamphlet. Perché questo è anche un libro politico sulla maternità, sulle implicazioni sociali dell’essere donna in un ambiente solo esteriormente progressista, sulla difficoltà a fare i conti con la violenza domestica, sul sesso come autodeterminazione, sui rischi di un sistema incentrato sull’efficienza militare. È un libro tutt’altro che consolatorio in cui la scrittura, senza perdere verve narrativa, si fa anche atto di radicale demistificazione scanzonata. È questo un libro in cui scorre una lingua letteraria felice che ricompone tutte le anime della scrittrice, saggista, intellettuale, attivista, narratrice Michela Murgia, impostasi sulla scena letteraria nel 2009 con il suo “Accabadora” e che oggi – 14 anni dopo – torna alla narrazione con un’opera che ne restituisce tutta la sfaccettata sensibilità.