Volatili di tutte le specie uniti alla ricerca di un re. Ravennati di ogni provenienza raccolti in un progetto teatrale. Luigi Dadina presenta il Grande Teatro di Lido Adriano, al debutto per il Ravenna Festival. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

Da una parte un grande classico della letteratura persiana, dall’altro una comunità multietnica riunita nel lido più popoloso della periferia di Ravenna. In mezzo a loro, come trait-d’union tra due mondi così lontani, un gruppo di avanguardia teatrale legato al Teatro delle Albe e un genere musicale tra i più amati dai giovani e più criticati da tutti gli altri: la musica rap. Sono gli ingredienti di “Mantiq At-Tayr – Il Verbo degli Uccelli”, in arrivo dal 28 maggio al 2 giugno presso il centro culturale Cisim di Lido Adriano, come evento di apertura del Ravenna Festival.

 

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La versione teatrale è curata dallo scrittore Tahar Lamri, che la descrive così: «Abbiamo elaborato il testo a partire dal celebre poema sapienziale di Farid Ad Din Attar, autore persiano del XII secolo, da cui già Peter Brook nel ’79 trasse “La Conférence des Oiseaux”. Gli uccelli sentono la necessità di avere un re, un ordine, una rappresentanza. L’upupa li informa che il re esiste: si chiama Simorgh, bisogna andare alla sua ricerca. Dopo molte peripezie, e dopo aver varcato sette valli - quella della Ricerca, dell’Amore, della Comprensione, dell’Indipendenza, dell’Unità, dello Stupore e della Povertà – solo trenta di loro arrivano alla meta. Alla soglia della settima valle si accorgono però che Simorgh è in realtà uno specchio in cui si riflette la loro immagine. Il fine del viaggio è la ricerca di sé stessi».

Lo spettacolo, che coinvolge oltre un centinaio tra attori e musicisti, bambini e adulti di varie nazionalità, è la prima tappa di un progetto comunitario pluriennale, chiamato Grande Teatro di Lido Adriano. Per creare questa «medina cosmopolita del racconto» già da mesi sono all’opera circa duecento cittadini di tutte le età e provenienze in tre laboratori teatrali (uno per i bambini, uno per gli adolescenti e uno per gli adulti), due dei quali guidati da Lorenzo Carpinelli, che sarà in scena. C’è poi un laboratorio di rap a cura di Lanfranco “Moder” Vicari e Albino Nocera; uno di scenografia (guidato da Alessandra Carini e Nicola Montalbini), uno per i costumi realizzato con Librazione e “La Cuciria” di Stefania Pelloni e un laboratorio musicale per la realizzazione dell’orchestra e del coro (a cura di Francesco Giampaoli, Enrico“Mao” Bocchini e Lanfranco “Moder” Vicari). Al timone dell’avventura c’è Luigi Dadina, co-fondatore del Teatro delle Albe, che in questa intervista racconta come è nata l’idea di questo Grande Teatro Comunitario. E cosa aspira a diventare.

 

Lo spettacolo “Il Verbo degli Uccelli” è il primo del Grande Teatro di Lido Adriano. Cos’è questo progetto, e quali saranno i prossimi passi del vostro lavoro?
«Questo progetto è frutto del decennale lavoro del Teatro delle Albe, che ho fondato insieme a Marcella Nonni, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari nel 1983. Nell’86 tre immigrati e griot senegalesi entrarono a far parte della nostra Compagnia. Da allora la relazione con la cultura islamica non si è mai interrotta. La vicenda delle Albe africane ha vissuto diverse fasi ed è tuttora in essere. L’islam con cui abbiamo scambiato viaggi e conoscenza è quello della confraternita sufi dei mouridi. Insieme a Laura Gambi, scrittrice e mia compagna di vita e arte, iniziammo poi un lavoro culturale a Lido Adriano».

Lido Adriano è alla periferia di Ravenna. Perché il vostro progetto è nato proprio lì?
«Si tratta di una complessa realtà urbana dove si parlano sessanta lingue. Laura con la sua cooperativa operava in quella periferia sul mare gestendo un centro per gli adolescenti. Iniziarono lì alla fine degli anni 90 i primi laboratori teatrali. Passo dopo passo diedero vita alla relazione tra un gruppo di allora giovanissimi rapper ravennati e gli adolescenti di Lido Adriano. Il nome della crew era, ed è tutt’ora, Il Lato Oscuro della Costa. Cooperando con me nella gestione dei laboratori diventarono, dopo quindici anni, i gestori di uno spazio culturale nato proprio in quell’agglomerato di palazzine sul mare. Decidemmo di non cambiare il nome a quella che era stata una scuola di mosaico che attirava studenti-turisti da tutto il mondo: il Cisim».

 

Il Centro Internazionale Studi e Insegnamenti Mosaico è stato per anni un’eccellenza, ma ha chiuso nel 2005. Perché legare al mosaico un progetto di musica e teatro?
«La metafora e la forma del mosaico hanno inconsciamente, o forse no, guidato la strutturazione di questo luogo di cultura che sin dall’inizio si è rivolto sia alla comunità di riferimento sia al mondo. Il Cisim è un luogo imprescindibile per la cultura rap underground italiana, è una sala teatrale, è diventato “casa” di una ribollente scena musicale romagnola, ospita mostre d’arte, è sede di opere di importanti street artist italiani».

 

E la collaborazione con Tahar Lamri com’è nata?
«Lamri, intellettuale e scrittore algerino, fin dalle origini ha affiancato e stimolato il percorso del Teatro delle Albe come de Il Lato Oscuro della Costa, la compagine rap di cui ho detto e che da sempre dirige le attività del Cisim: spettacoli, progetti, libri, convegni sul nulla, opere. Senza tutto ciò non ci sarebbe stata questa nuova avventura che è nata proprio da questa identità formatasi in decenni e dalla necessità di creare nuove forme dove far di nuovo convergere tutte le energie messe in essere in questo tempo che abbiamo alle spalle. Il gruppo che dirige questo progetto è composito, ne fanno parte Lamri, Lanfranco “Moder” Vicari, che è rapper e direttore artistico del Cisim, Massimiliano Penombra Benini, Alessandra Carini che è gallerista e progettista di eventi, Nicola Montalbini, artista visivo, e Federica Vicari che è la direttrice organizzativa, e dal sottoscritto. Per mesi abbiamo ragionato insieme sull’idea di un teatro comunitario, scoprendo il meraviglioso testo sugli uccelli che ci sta guidando, e abbiamo legato la nostra identità al composito mondo che si riferisce al Cisim. Ne fanno parte abitanti di Lido Adriano, musicisti e teatranti romagnoli, curiosi e spettatori».

 

Quanto è durato il lavoro di preparazione?
«Da sette mesi, attraverso sette distinti laboratori, stiamo lavorando alla messa “in-vita” di questa opera. Stiamo immaginando un futuro per questo Teatro Popolare che strutturandosi come in questa prima stagione faccia seguire ai mesi di laboratorio la presentazione di un’opera. Chiudendo sempre le repliche al due giugno, Festa della Repubblica. Ci rivolgeremo ancora a Oriente per cercare le opere da rappresentare: anche perché il nome del Lido in cui operiamo nasce dalla famosa terzina dantesca in cui il poeta narra l’arrivo da Oriente della Madonna greca: “Nostra Signora in su Lito Adriano”. Come da oriente e dal sud del mondo arrivano molti degli odierni abitanti di questa periferia sul mare».

 

Il testo è profondamente mistico, riprende temi sufi. Perché questo antico poema persiano misticheggiante vi è sembrato adatto ad aprire un cantiere che riguarda profondamente la società contemporanea italiana? E come avete lavorato all’adattamento di Lamri?
«Ci sono ragioni profonde che ci hanno convinto ad affrontare questa opera. In fondo gli immigrati, i loro figli, ma anche noi stessi che non ci identifichiamo in questo mondo siamo alla ricerca di un re. Di un orizzonte. Di un’idea che ci consenta di sentirci comunità e al contempo ci permetta di scandagliare la nostra identità, mettendosi di fronte al proprio corpo, alla propria psiche, alla propria spiritualità. Al nostro cuore dentro al cuore. Che è ciò che, nel poema, ci svela il Simorgh divenuto specchio riflettendo così la nostra immagine, al termine di un lungo viaggio collettivo. La drammaturgia di Tahar Lamri, frutto di una complessa riscrittura, ha reso “semplice” il dispiegarsi delle azioni concentrando l’attenzione principalmente sul viaggio degli uccelli partendo dalla decisione iniziale nata dal loro bisogno di un re e dal viaggio proposto dalla saggia upupa che svela all’assemblea il fatto che c’è già un re degli uccelli. Poi il lungo viaggio per raggiungere il Simorgh: il deserto da attraversare, le sette valli prima di giungere alla sua presenza».

 

Il teatro ha il dono di far “sentire” temi anche ben conosciuti dal pubblico attraverso giornali o saggi. Ma la quantità di lingue che si parleranno in scena, non rischia di provocare un “effetto Babele”?
«Nella storia della torre di Babele Dio punisce gli uomini, che in quel momento avevano una sola lingua, disperdendoli nel mondo e nelle lingue differenti tra loro dopo che l’umanità aveva deciso di costruire una torre per raggiungere Dio. Dio punisce la presunzione degli uomini. In questo testo e nello spettacolo che stiamo creando partiamo già coscienti delle diversità che abbiamo tra noi umani, delle diverse lingue che ci nutrono e rappresentano, gli uccelli partono tutti per raggiungere il loro re, ma non arriveranno tutti. Non si costruisce una torre, si prova a viaggiare insieme sapendo delle lingue differenti e aspirando ad arrivare insieme».

 

Però tutti gli uccelli volano, ma non tutte le persone si spostano: in Italia soprattutto negli ultimi mesi abbiamo visto come si soffia sul contrasto tra chi sta fermo da decenni in una terra che sente propria e chi invece arriva da lontano…
«L’eterna dicotomia tra nomadismo e stanzialità viene bene in luce pensando alla storia della torre di Babele e al viaggio iniziatico degli uccelli di tutte le razze e lingue narrata nel testo di Farid Ad-Din Attar. Nel nostro racconto le lingue diverse creeranno una melodia comune perché il viaggio che faremo non riguarda un atto di presunzione, di potere, ma un viaggio di conoscenza di sé e dell’accettazione delle differenze. Differenze che non sono solo linguistiche, culturali e religiose, ma sono anche date dalle diverse età dei partecipanti: i bambini, gli adolescenti, gli adulti e i vecchi. Questo è ciò a cui tendiamo, poi il palcoscenico ci dirà se saremo riusciti a narrare attraverso questo immenso coro le aspirazioni e le sensazioni che abbiamo provato in questi mesi».

 

Nel vostro spettacolo anche la musica ha il compito di amplificatore dell’empatia e della condivisione di emozioni. Che genere di musica sarà? Mi aspettavo musiche orientali, invece ho letto di un laboratorio rap…
«Non ci saranno musiche tradizionali, se non un canto di Rosa Balestrieri che è riflessione d’amore, “Mi votu e mi rivotu”, anche questo, in parte, riscritto dal gruppo di musicisti guidati da Francesco Giampaoli. Le musiche che condurranno il dispiegarsi della rappresentazione sono originali, nate anche dall’ascolto di musiche orientali ma piegate a un’estetica contemporanea. Per quanto riguarda il rap, che avrà uno spazio importante nel nostro spettacolo, è una modalità, un’attitudine antica, presente dalla notte dei tempi in tutte le culture. È la modalità del poeta che sottolinea il ritmo delle parole che ha composto o che canta le sacre parole. Il rap è il canto dell’aedo che recita Omero, è il recitar cantando della tradizione del melodramma, è il canto dei maggianti degli Appennini tra l’Emilia e la Toscana, è il canto dei griot nell’Africa sub-sahariana. È il recitare salmodiando della cultura islamica. È, oggi, la più estesa e trasversale forma musicale utilizzata in tutto il mondo e in tutte le culture. È una musica popolare».