Affascinante, carismatica. E impegnata. Ha appena girato “Mur”, sul muro ai confini della Bielorussia voluto dal governo polacco. Uno scandalo da denunciare

L’intelligenza è accoglienza, e il sorriso di Kasia Smutniak vedendomi arrivare dopo quasi due ore di ingorgo romano sotto l’ennesimo diluvio estivo, dice quel genere di accoglienza: di chi, senza sapere, sa. Sorriso magnifico come lo è il suo viso e l’intera sua presenza, ma una bellezza vissuta senza enfasi, nessun indugio su vanità di superficie.

 

Consapevolezza piuttosto, che vuol dire presenza mentale: l’essere molto bella e carismatica, Kasia Smutniak lo vive più che altro come solido punto di partenza, una base su cui meglio attecchisca il pensiero, la decisione di stare al mondo allenandosi a un’attenzione costante. Da ragazza ha fatto la modella perché aveva passato l’età per intraprendere la carriera militare di pilota (ma il brevetto lo ha). Il padre generale dell’Aeronautica polacca, la madre che da poco aveva perso un fratello in un incidente in volo (un destino presago come solo il destino sa essere, Kasia sarà vedova di Pietro Taricone morto in un’esercitazione di volo nel 2010), lei, figlia unica, di procurare ansie di sorta ai genitori non se l’è sentita. Viaggiare per le sfilate di moda è venuto quasi per caso. Come l’arrivo in Italia, un Paese in cui trovarsi bene e poi restare sino a mettere radici è venuto naturale (parla un italiano fluente e dal bellissimo lessico, a segno di un amore per la lingua non fine a sé stesso, anche eloquente di altri amori).

 

Ha conosciuto e combattuto vari luoghi comuni anche nostrani sul femminile in genere, e la “causa” delle donne la interpella, con il tempo man mano di più, specie da quando in Polonia, il Paese dove è nata e cresciuta, la condizione femminile conosce un’involuzione che dovrebb’essere (e non è abbastanza) monito per tanti altri angoli d’Europa. Se le chiedo quali tra i tanti ruoli interpretati l’hanno segnata di più, al primo posto mette quello di protagonista di “Nelle tue mani” di Peter Del Monte (film del 2007, sette anni dopo l’esordio di attrice).

Da donna profondamente ricettiva qual è, lei distingue la sensazione di agio data dalle atmosfere su un set, da un’altra più intima e personale, la gratificazione di avvertire un’appartenenza, a un ruolo, a una storia, a un film nella sua totalità che vuol dire anche, moltissimo, sintonia con chi quel film lo ha scritto e lo dirige, intanto dirigendo lei. In seguito Ferzan Ozpetek, Paolo Sorrentino, Francesca Archibugi nel recente “Il colibrì”: prima però è stato Del Monte a saper vedere Kasia Smutniak lasciandola libera di esprimersi nei tanti risvolti della sua femminilità forte, perché concreta e spirituale insieme. La maturità e la forza vitale che trasmette (anche nel secondo matrimonio con Domenico Procacci, produttore cinematografico a capo della Fandango, un sodalizio luminoso per come, tra le altre cose, è rispettoso del suo passato di donna segnata da un lutto d’amore), trova corrispettivo nel rapporto che Kasia ha con il lavoro. Rapporto maturo e in divenire, che include il mutamento, mettersi in discussione, cambiare, non cristallizzarsi. Così, dopo tanti ruoli in film e serie televisive (“Domina”, la più recente; la seconda stagione dall’8 settembre su Sky Atlantic), e dopo avere più volte confidato ad amici e a colleghi increduli che avrebbe smesso di fare l’attrice, o quantomeno si sarebbe presa una pausa, è stata fedele nel mantenere quell’impegno preso con sé stessa.

 

Un impulso imperativo a mettersi in gioco su piani diversi, che significa, pragmatica e saggia come lei è, misurarsi con la realtà e le sue ingiustizie. «La ricerca prioritaria è diventata di esperienze, più che di ruoli»: nel 2016, crea una Onlus sotto la cui egida fonda una scuola in Tibet in cui studiano attualmente ottantasei bambini (da poco ha incontrato il Dalai Lama e la sorella di lui, da loro ascoltando e imparando molto circa i sistemi pedagogici).

Poi, di recente, qualcosa di più profondo ancora è scattato. Smette di leggere le sceneggiature che continuavano ad arrivarle, e prende la sua decisione. «Quel che mi circonda è diventato più forte dei ruoli possibili: un po’ come quando durante la pandemia non si riusciva a leggere libri per come la realtà intorno era forte, più di qualsiasi storia inventata».

 

Lei, nata nel 1979 nell’Europa dell’Est, la cui infanzia ha conosciuto in tutta la sua portata metamorfica l’evento della caduta del Muro di Berlino, ha capito che voleva occuparsi dei muri. Dell’abominio del loro venire innalzati, quasi sempre sotto lo sguardo indifferente di chi a quei muri vive accanto. Così Kasia Smutniak ha deciso di partire e andare a filmare qualcosa che la interpellava e addolorava moltissimo: la costruzione del muro ai confini con la Bielorussia decisa dal governo polacco, nella stessa porzione di terra (di foresta, la più antica d’Europa, popolata da bisonti e da alberi secolari) dove nel 2022 per alcuni mesi, subito prima dell’inizio della guerra in Ucraina, transitavano migranti di molte diverse nazionalità, afgani, siriani, iracheni, congolesi, tutti in transito e senza dimora dopo la caduta di Kabul. Centoottanta chilometri di barriera alta sei metri in metallo e filo spinato, a respingere e di fatto imprigionare quei migranti in quella che loro stessi chiamano “jungle”, una giungla che è uno scandalo umanitario e civile a cielo aperto, ma di cui nessuno sembra curarsi.

 

Nasce così “Mur”, il documentario che presto vedremo nelle sale, prodotto dalla Fandango e da Kasia Smutniak, realizzato insieme ad altre collaboratrici (tutte donne, anche Marella Bombini, qui sua compagna di viaggio). Un film girato in parte con i telefoni cellulari, ascoltando storie di persone terrorizzate e in pericolo costante di morire, dovendo proteggerle dal loro stesso partecipare al documentario. Girato aiutata dal parlare il polacco sua lingua madre, ma contemporaneamente parlando e ascoltando molte altre lingue, e intanto realizzando di trovarsi accanto (sul confine) di una Polonia cupamente diversa da quella lasciata più di vent’anni prima. Girato nella convinzione che continuare a distogliere lo sguardo dai muri (ce ne sono diciotto in tutta Europa, e questo raccontato in Mur vuol essere simbolico di tanti), perseverare nel non saper guardare ai traumi che quelle disumane barriere generano, vuol dire nient’altro che preparare nuovi traumi, nuovi muri, nuove involuzioni.

Umanamente, anche, le interessava raccontare cosa significhi “essere accanto”. Testimoni proprio malgrado, ma testimoni perché accanto. Quand’era bambina, e giocava con i cuginetti intorno alla casa di sua nonna, c’era (c’è ancora) un muro di fronte alla casa. Non sapeva, come ha poi scoperto, che quel muro divideva lo spazio da quello che era stato il Ghetto di Lødz (il secondo più grande in Polonia, dopo Varsavia). Mi dice della poesia di Czeslaw Milosz che parla di questo permanere “involontario” della memoria dei luoghi. S’intitola “Campo dé Fiori”, parla del rogo di Giordano Bruno e compara la piazza romana a Varsavia. Questo anche ci racconterà in “Mur”: il dramma del vivere accanto, senza sapere, o senza voler sapere. «Sono traumi che vengono tramandati, un po’ come accade agli ebrei di terza generazione» conclude, seria e bellissima.

 

Io, ebrea di terza generazione, lascio Kasia Smutniak divisa tra la gioia di averla incontrata e un’altra, meno allegra. La felicità di imbattermi in una traiettoria di vita come la sua, dove una necessità interiore autentica porta a lasciare una vita passata a recitare personaggi, e invece andare verso le persone, le ferite umane, dell’umano. In tempi di narcisismo dissennato, è molto. È moltissimo.