I rischi delle armi atomiche. E l’impegno per salvare la Terra. All’uscita di “Oppenheimer” il divo parla di film e del futuro da costruire insieme

«Se vuoi rendere il mondo un posto migliore guarda te stesso e cambia». Lo cantava Michael Jackson in “Man in the mirror”, lo ripete oggi l’attore ambientalista Matthew Modine, applaudito interprete di “Full Metal Jacket” e “Birdy - Le ali della libertà”, vincitore della Coppa Volpi a Venezia nell’83 per “Streamers”, tornato alla ribalta grazie al successo della serie Netflix “Stranger Things” per cui le nuove generazioni lo adorano. Dal 23 agosto è sul grande schermo con l’atteso nuovo film di Christopher Nolan “Oppenheimer” in cui veste i panni dell’ingegnere informatico Vannevar Bush. Lo abbiamo incontrato all’Ora! Fest in Puglia, prima che abbracciasse lo sciopero di sceneggiatori e attori a Hollywood.

 

Partiamo dal film “Oppenheimer”, come lo definirebbe?
«Una storia gigantesca con un cast d’eccezione. Cillian Murphy è straordinario, dividerci il set e vederlo recitare mi ha entusiasmato».

 

Aveva lavorato con Robert Downey Jr. in “America oggi”, invece.
«Ai tempi però non avevamo scene insieme. Lo stesso con Matt Damon, mentre con Gary Oldman e Kenneth Branagh non ci siamo neanche incrociati, capita quando ci sono cast così grandi».

 

Chi è il suo Vannevar Bush?
«Uno dei primi scienziati ad avere a che fare con computer e intelligenza artificiale: era a capo dell’ufficio di ricerca e sviluppo scientifico statunitense, gestiva tutto il team informatico per gli studi tecnologici militari. Il bello è che il pubblico non ha idea se lui lavori per il presidente, per l’esercito o per chi altro: è un personaggio grigio, avvolto nel mistero».

 

Dal cinema alla realtà, trova che oggi la minaccia nucleare sia realmente incombente?
«Al cento per cento. È per questo che abbiamo tanta paura di certi Paesi. Ma per me è davvero ipocrita da parte dell’America temere stati dotati di armi nucleari, come l’Iran o la Corea del Nord, quando è stata l’unica al mondo finora a usarle, a Hiroshima e Nagasaki».

 

La infastidisce l’ipocrisia americana?
«Non sopporto il tipo di ragionamento di “Questo è ok per me, ma non è ok per te: io posso farlo e tu no”. È una storia vecchia, l’esercito americano è il più grande consumatore di carburanti fossili del pianeta, gli Stati Uniti producono il più forte inquinamento atmosferico del mondo, non solo per tutti coloro che usano le automobili a benzina ma per l’uso militare dei carburanti fossili».

 

Quando ha iniziato a interessarsi di ambientalismo?
«Da bambino. Raccoglievo le bottiglie e mi davano qualche centesimo per il vuoto a rendere. Mio padre gestiva un drive-in in un posto pieno di vegetazione, ricordo ancora i colori dei ciliegi, le piante, le angurie, e poi di colpo negli anni Settanta l’urbanizzazione e la deforestazione della California. Ne sono stato testimone, ho visto con i miei occhi distruggere tutto per costruire edifici e centri commerciali. Da allora sono rimasto scioccato: ho sempre visto la Terra come un organismo vivente che respira».

 

Non respira granché bene ultimamente.
«È complicato distinguere la verità dalle fake news oggi. Ma sin dagli anni Settanta sappiamo che usare combustibili fossili distrugge la qualità dell’aria, o che il fumo delle sigarette provoca il cancro. Eppure le multinazionali del petrolio e del tabacco hanno pagato per anni medici e scienziati, come anche politici, per negarlo. Per sollevare un dibattito dal valore di svariati milioni di dollari, per dire: “Non è detto che le sigarette provochino davvero il cancro”, oppure “Non è sicuro che i combustibili fossili siano responsabili del cambiamento climatico”».

 

Seminare il dubbio a cosa ha portato?
«È una politica precisa, tesa a sostenere le multinazionali a scapito della salute degli esseri umani, che a loro volta hanno detto, e dicono ancora, “Mah, forse sarà come dicono loro, non è detto che”. E invece è detto, è scientificamente provato, non c’è più alcun dubbio. La buona notizia è che oggi possiamo scegliere da che parte stare».

 

Lei l’ha scelta chiaramente: è ambientalista, animalista…
«E realista: la realtà è che le risorse del Pianeta sono esaurite. Non possiamo continuare a consumare e accumulare rifiuti come stiamo facendo, dobbiamo cambiare atteggiamento e dobbiamo farlo oggi. Se consumassimo all’anno tanti esseri umani quanti animali effettivamente mangiamo, l’intera razza umana si estinguerebbe in sole tre settimane. Abbiamo una grossa responsabilità verso le nuove generazioni: dobbiamo lasciare un mondo migliore e sostenibile, altrimenti saremo tutti complici e non ci sarà alcuna speranza per il futuro».

 

Essere ambientalista “paga” a Hollywood?
«Quel che cerco di fare io è parlarne più che posso per far capire alla gente che è fondamentale agire adesso per il bene del pianeta. Quello che cerco di non fare è parlare di ambientalismo e poi andare a Cannes con il jet privato, come ha fatto Harrison Ford. Lo stimo, ma così non dà il buon esempio».

 

In Italia tornerà mai a girare?
«Magari, mi piacerebbe. L’ultima esperienza risale all’88, per “La partita” di Carlo Vanzina. Con me sul set c’erano Jennifer Beals e Faye Dunaway, era una storia potente sulla vita e sulla morte. Sulla carta era un grande film, ma solo sulla carta».

 

Che idea si è fatto della morte?
«Il giorno che ne accetti l’inevitabilità è quello in cui inizi a vivere pienamente».