L’orto dietro casa, dove patate e pomodori crescono tra le rose. Se potesse scegliere dove incontrarci per questa intervista che siamo stati costretti a fare in videochiamata, il Maestro Mario Brunello, grande violoncellista e grande appassionato di montagna e di ambiente, non avrebbe dubbi: «La farei proprio qui davanti al mio studio. Nel giardino della mia casa nella campagna di Castelfranco Veneto c’è un orto che è più per bellezza che per produzione: è disegnato sul modello dei chiostri dei monasteri francesi che accanto agli ortaggi avevano le rose antiche».
Pensavo che lei mi proponesse un posto in montagna…
«Eh, sarebbero talmente tanti quelli dove vorrei essere adesso che non saprei quale scegliere».
Ma la strada che nella sua vita lega la musica classica e l’impegno per l’ambiente nasce dalla montagna?
«Sì, la montagna è un po’ il destino della mia formazione familiare. I miei ci hanno sempre portato più in montagna che altrove, soprattutto in una casetta in un posto meraviglioso: è lì che ho imparato a suonare all’aperto, ho fatto le prime passeggiate: attraverso la montagna ho conosciuto la natura. E poi ho avuto la fortuna di crescere in questa cittadina in periferia dove ancora oggi mi trovo bene. Da bambino fuori di casa avevo la campagna sterminata, non c’era altro che campagna. E tutti i miei giochi sono nati a contato con le piante, sono cresciuto così. Il tramonto era il segnale che il gioco era finito, il sole tramontava e quindi bisognava tornare a casa».
E sulla strada che unisce ambiente e musica nasce “Acqua rotta”, lo spettacolo con Mariangela Gualtieri che presentate sabato 23 al festival “Una sola Terra” di Brescia.
«Per me la natura è la rappresentazione più evidente dell’arte musicale. Quando immagino di descrivere quello su cui sto lavorando, mi vengono sempre in mente le forme della natura: dalle più piccole alle più vaste, da una fogliolina a una catena rocciosa. Per questo, quando con Mariangela abbiamo ideato questo lavoro sull’acqua, ho chiesto a Gianandrea Gazzola di realizzare un’installazione che ci facesse sentire la goccia, e capire l’importanza dell’acqua nel nostro spettacolo. La sua opera, un blocco di ghiaccio che si scioglie, riassume il problema della natura che si sta distruggendo a poco a poco».
Come il ghiaccio che si scioglie, molte immagini che mostrano il rischio ambientale sono spesso belle, e quindi ambivalenti...
«È strano: la natura ci parla attraverso la bellezza anche quando non ne può più e combina disastri, o almeno quelli che noi consideriamo disastri - magari per lei è solo una scrollatina di spalle. E così noi non ci rendiamo conto di quanto la tartassiamo. Pensiamo di poter tagliare un albero perché ci serve - oppure perché non ci serve - senza pensare che stiamo creando una ferita. Un bellissimo libro che ho letto ultimamente, “Flower power” di Alessandra Viola, parla dei diritti delle piante. Non abbiamo mai considerato che le piante, la natura, il paesaggio hanno dei diritti. Pensiamo che abbiano solo dei doveri, che siano al nostro servizio».
Lei suonerà musiche di quattro musicisti molto diversi tra loro. Come li ha scelti?
«Non sono musiche didascaliche: non è che quando si parla di vento si sente un sibilo o se si parla di sassi partono percussioni. Ho scelto Peter Sculthorpe, un australiano che ha lavorato sulla musica degli aborigeni, perché il suo “Requiem”, pur essendo legato alla tradizione occidentale, usa suoni primitivi: mi è sembrato adatto per far sentire quanto primitivo è l’elemento dell’acqua. Sofija Gubajdulina invece è entrata con dei brevissimi preludi che si inseriscono tra alcuni brevi componimenti di Mariangela: sono componimenti in cui si sente l’immagine bellissima che Gubajdulina ha dello strumento del violoncello, che lei vede come un corpo di legno che ha un suo sistema nervoso - le corde - e un apparato respiratorio che è l’arco, con il suo movimento a mantice, come fosse un polmone. Poi c'è Johann Sebastian Bach: non può mai mancare quando si parla di natura, perché è il compositore che meglio ha rappresentato la proporzione indescrivibile della natura. Noi però lo abbiamo usato un po’ come fa Emilio Isgrò con le sue cancellature. Ci siamo permessi di cancellare le note di Bach con le parole di Gualtieri, e poi di cancellare le sue parole con la musica di Bach. In questo modo nasce un qualcosa che neanche noi sappiamo bene cosa sia: l’unica certezza è che i due materiali - il materiale Bach e il materiale Gualtieri -sono entrambi nobilissimi, perciò qualcosa di buono viene fuori sempre. Infine c’è Lamberto Curtoni, giovane violoncellista che ha avuto il merito di scrivere appositamente per i versi di Mariangela, e quindi mi è sembrato giusto usare la sua musica».
Anni fa si sentiva spesso parlare di crisi della musica classica, ultimamente invece il lamento si è spostato sulla musica leggera. Ma la classica come sta?
«Io ho l’idea che sia arrivata al capolinea del suo percorso per come lo abbiamo costruito e inteso finora. Noi ci siamo affidati alla musica classica su un modello di rappresentazione ottocentesco: il concerto. Ma il rito del concerto stride con i nostri tempi, quindi non ha più tanto senso. Ci saranno sempre teatri bellissimi e sale bellissime, ma gran parte delle associazioni che organizzavano musica sono sparite e non solo per problemi economici ma proprio perché hanno finito la loro funzione di aggregazione. Il concerto-rito è stato sostituito da tutti i mezzi tecnologici che abbiamo, e che sono molto più aggregativi rispetto a un concerto. Questo non vale per i grandi concerti perché quella è un'altra esperienza: infatti a soffrire più di tutto è la musica da camera, che ha bisogno di quel rito molto più della sinfonica. Per questo non bisogna disdegnare altri luoghi dove poter far musica. E soprattutto bisogna staccarsi dalla forma del concerto fatto di prima parte, applausi, intervallo, seconda parte, poi il bis, il pezzo virtuosistico, il pezzettino di contemporanea… Quello è proprio superato. In generale, capisco che la classica non abbia più una diffusione così rilevante nella vita quotidiana, ma va salvaguardata come se fosse un libro: perché come il libro sembrava che sparisse quando è arrivato l’e-book e invece è un rifugio ancora molto apprezzato da tutte le età».
Studiare musica classica richiede tantissimo tempo, allenamento, fatica e anche noia. E si è sempre detto che in Italia si tende a studiare strumenti da solista più che da orchestra. Il violoncello sta in mezzo tra solista e orchestra, quindi le chiedo: come stanno i giovani musicisti, e come sta il violoncello?
«Ah, il violoncello sta benissimo: forse tra gli strumenti classici è quello che ha più libertà di movimento perché ha un range di suoni che va dall’acutissimo al grave quindi sta bene dappertutto - però naturalmente tiro acqua al mio mulino. Per quanto riguarda i giovani invece effettivamente qualcosa è cambiato, e per questo io non insegno più. Per vent’anni ho tenuto masterclass all’accademia Chigiana e in altri templi dell'alto perfezionamento, ma una quindicina di anni fa mi sono accorto che i giovani parlavano un linguaggio che io non riuscivo a tradurre, non capivo cosa volevano da me. Io ho studiato con grandissimi maestri e ricordo il mio stupore quando mi insegnavano cose che non conoscevo. Questi ragazzi invece sapevano già tutto: avevano già visto su Youtube come io suonavo quel brano che loro sarebbero venuti a imparare da me. Lo stupore, che secondo me è un motore per lo studio, non c’è più: è stato sostituito da qualcos’altro, qualcosa che io ancora non capisco. Vedo che studiano, sono bravissimi, sanno molto più di quello che sapevamo noi. Non hanno neanche più il bisogno di stare fermi a lungo a ripetere qualcosa: non so se anche i muscoli oggi sono diversi, ma quei problemi tecnici sui quali noi passavamo ore, loro li risolvono in fretta».
Qualche masterclass però lei ancora la fa…
«Ho iniziato un progetto in un piccolo paesino delle Marche, San Ginesio, rimasto quasi completamente disabitato dopo il terremoto. Ho pensato che lì potevo ricominciare a far qualcosa perché insieme ai ragazzi potevamo far ripartire questo territorio. Le lezioni si alternano con l’andare a scoprire l’artigianato locale, come si fanno i capelli di paglia o le scarpe e poi applicare quel metodo allo studio dello strumento. Poi andiamo a vedere le opere d'arte per capirne la forma, e quella forma cerchiamo di adattarla a una suonata. E poi andiamo a camminare sui Monti Sibillini per capire quanto possono insegnare la natura, un sentiero, la fatica, la collaborazione. Facciamo lezione su questi argomenti e alla fine i ragazzi non sono più davanti a un video di Youtube che gli insegna qualsiasi cosa in tre minuti, ma assorbono la conoscenza dal territorio, come fossero delle piante che mettono radici».
Vorrei chiudere con la sua ultima passione, il “violoncello piccolo”: si dice che il violoncello è lo strumento più simile alla voce umana, e che in questa versione somigli al castrato o al controtenore…
«È uno strumento androgino, non si riesce a classificare se maschile o femminile. E soprattutto è una voce nuova, almeno oggi: in realtà era molto popolare nel canto barocco. E proprio come il controtenore e i castrati, il violoncello piccolo aveva la funzione di occupare un posto stupefacente, di accompagnare uomini che cantavano arie di grandissimo virtuosismo con un corpo grosso una voce sottile, e che portavano la musica nel soprannaturale, che è proprio dove deve stare la musica. Nel 600, nei momenti in cui la Trinità non poteva parlare con la solita voce imponente, la si affidava a strumenti ibridi: l’oboe d’amore, il violoncello piccolo, la viola d'amore. Poi però è arrivata la soprano, che era molto più brava dei castrati, e nel giro di vent’anni i castrati sono scomparsi. E la stessa cosa è successa al violoncello piccolo, che ha ceduto il posto al violoncello».
Ma come ha scoperto questa passione?
«Suonando le suite per violoncello di Bach e ascoltando quelle per violino, mi sono reso conto che mancava qualcosa, che c’era un mondo al quale io non avevo accesso, perché il violoncello è uno strumento troppo ingombrante. Allora ho provato ad adattare uno strumentino che avevo a casa: ho rubato una corda all’arpa di mia moglie perché non trovavo le corde così sottili, e ho provato a fare i primi accordi della prima suonata per violino. E mi si è spalancato un mondo: è stato come passare sotto la cascata dei cartoni animati e affacciarsi su territori sconosciuti. Sto scoprendo un repertorio che mi ha dato una nuova giovinezza. E ha raddoppiato la mia vita, perché ormai io sono violoncellista per metà, e per metà “grosso violinista”».