Scritti al buio
La vicenda del padre dell’atomica tra idealismo e dongiovannismo, genio e candore dimostra come il regista sappia sempre rendere pop i drammi più laceranti. Ma certi paragoni vanno evitati
di Fabio Ferzetti
C’’è qualcosa che rende inconfondibili e talvolta irresistibili i film di Christopher Nolan, tanto da averne fatto una delle ultime grandi star mondiali della regia. Il senso della sfida. Ogni nuovo film del regista inglese alza infatti l’asticella alle stelle. Come raccontare uno dei momenti più terribili della Seconda guerra mondiale abolendo la cronologia per seguire tre diversi elementi, terra, cielo, mare (“Dunkirk”)? Come costruire un mèta-thriller paranoico sovvertendo lo spazio-tempo senza perdere per strada gli spettatori (“Tenet”)? E come comprimere epoche e piani tanto distanti (personale, scientifico, bellico, politico...) di una vicenda già infinitamente tragica e densa come quella del padre dell’atomica?
Certo, ogni sfida ha i suoi costi: un forte aumento della complessità su certi piani quasi sempre genera semplificazioni drastiche su altri. Più complessa è la macchina (la struttura), più agili e funzionali saranno i suoi componenti. Prendere o lasciare. È vero, Nolan sa rendere pop anche i dilemmi più astratti, i drammi più laceranti, le tragedie più immani. Ma è proprio per questo che le tre frenetiche ore di “Oppenheimer”, con tutti i loro salti temporali, i trucchi fatti dal vero come una volta, il bianco e nero usato per il grigiore dei politicanti, forse appassionano, raramente emozionano.
Sia chiaro, c’è tutto, forse troppo. Dai tanti maestri e interlocutori più o meno celebri del giovane fisico (Cillian Murphy), al politico che prima lo usa poi lo rovina (un irriconoscibile Robert Downey Jr.), passando per i lati più personali, l’avidità intellettuale e la coscienza del proprio valore, l’idealismo e il dongiovannismo, il genio scientifico e il candore politico (il giovane O. frequenta troppi comunisti, la pagherà), l’orrore per ciò che ha contribuito a costruire e l’ingenua speranza che Hiroshima e Nagasaki, mai visualizzate per fortuna, scongiureranno guerre future. Brivido in sala, si scopre pure che prima della primissima bomba i fisici non escludevano del tutto una reazione a catena capace di incendiare l’intera atmosfera terrestre...
Il tutto sorretto da un cast “all star” anche in parti minime, dal 70 mm., da molte scene memorabili (a parte il primo grande esperimento a Los Alamos, sono belli i momenti didattici, come la scena delle biglie, o certi dialoghi rompicollo come Kurt Gödel a zonzo nel bosco con Einstein perché “le strutture degli alberi sono quelle che mi ispirano di più”). E poi sì, certo, un blockbuster così ambizioso e di successo su temi così ardui in tempi di infantilizzazione di massa come questi resta un miracolo, per carità. Però, ecco, i paragoni con Kubrick, per favore no.
Oppenheimer
di Christopher Nolan
Usa, 181’
ENTUSIASTI
Una conversazione inedita fra due grandi registe che ci mancano molto, Cecilia Mangini e Agnès Varda, filmata da Paolo Pisanelli. È una delle sorprese del Salina Doc Fest (13-17 settembre). In programma anche una personale dell’iraniana Firouzeh Khosrovani, regista del coraggioso e premiatissimo “Radiograph of a Family”.
E PERPLESSI
Troppi bei film in sala tutti insieme come ogni fine estate, da “Passages” a “Manodopera”, da “Following”, esordio di Nolan (1998), a “Io sono tuo padre” con Omar Sy. Una storia multilingue di soldati senegalesi mandati al fronte in Francia nel 1917, che per giunta esce solo doppiato e tutto in italiano. Che spreco.