Non tutti i grandi registi sono sensibili all’arte altrui. Wim Wenders sì, come ha dimostrato più volte (i Buena Vista Social Club, Pina Bausch, Salgado, Anselm Kiefer). Anche “Perfect Days” nasce da una proposta esterna: girare diversi corti sulle toilettes di Tokyo, capolavori di architettura oltre che monumenti alla filosofia di vita giapponese. Ma perché invece dei corti non fare un film? Detto fatto: ecco un protagonista potente, una storia tenuta sotto traccia e un film che procede per piccole epifanie, o - come dicono i giapponesi - “komorebi”.
Il sorridente Hirayama (Koji Yakusho, palma come miglior attore a Cannes), casa semplice ma impeccabile, ogni mattina si alza, piega il materasso, bagna le piante e va al lavoro ascoltando capolavori anni 60-70 (Lou Reed, Patti Smith, Otis Redding, Nina Simone, i Kinks...), rigorosamente su cassetta. Un lavoro che altri troverebbero umiliante ma per lui è un’arte. La pulizia dei bagni pubblici.
Secchio, stracci e attrezzi fabbricati in parte da sé, Hirayama lava, lustra, strofina, con tanto di specchietto per gli angoli nascosti. Nessuno sembra rendergliene merito, non il giovane collega lavativo né i clienti di quei luoghi più simili a templi che a toilettes. Ma Hirayama non ci fa caso. Per lui conta altro, la luce che danza tra i rami, il germoglio che brilla sotto un albero, quel senzatetto che nessuno sembra vedere.
Naturalmente un’esistenza così monacale nasconde qualcosa cui Wenders saggiamente accenna appena, preferendo giocare su variazioni di luoghi, incontri, momenti, per mostrare quanta libertà e quanto amore celi una vita a prima vista così limitata. E lo splendore del film, che perde smalto appena “racconta” troppo, sta proprio nel nitore dei gesti, nel ritmo delle ripetizioni, nella grazia con cui Wenders estrae dall’ombra luci, voci, apparizioni perse nel flusso incessante della metropoli.
Che poi è un modo per trasformare il tempo in spazio e viceversa, come ha sempre fatto. Oggi, del resto, nulla è più sacro del lavoro manuale. Wenders non è il primo a ricordarcelo. Né l’ultimo.