Intervista
Furio Colombo: «Vi spiego perché lottammo per il Giorno della Memoria: la Shoah fu una vergogna anche italiana»
La data istituita per commemora le vittime dell’Olocausto oggi è al centro di polemiche e strumentalizzazioni. Uno dei protagonisti nel 2000 della battaglia per istituirla, rievoca quei giorni e ne spiega le ragioni. Più che mai attuali
Quel che resta oggi degli anni orribili della Shoah sono le storie dei sopravvissuti: Sami Modiano, Edith Bruck, Liliana Segre, testimoni infaticabili come furono anche Piero Terracina o Settimia Spizzichino. Ognuno di loro ha raccontato, o ancora racconta, le atrocità delle leggi razziali e dei campi di concentramento, le proprie vite segnate per sempre da quei tragici momenti. Chi ha vissuto l’orrore dell’Olocausto non può dimenticare. E per ricordare le vittime, il 27 gennaio (giorno che ricorda la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche nel 1945) si celebra in Italia il Giorno della memoria, istituita dalla legge n. 211 del 20 luglio 2000, votata all’unanimità dopo una lunga battaglia portata avanti da Furio Colombo, giornalista, intellettuale, scrittore, allora deputato dell’Ulivo. Fu lui a proporla, lui a convincere i partiti che bisognava «ricordare lo sterminio del popolo ebraico, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati», come recita il resto della legge, approvata ben 5 anni prima dell’Onu, che la votò nel 2005.
Colombo, perché era così importante istituire quella legge?
«Lo era perché si è capito subito che la memoria, come propensione a ricordare, era estremamente labile, quindi bisognava fissare assolutamente un punto di riferimento affinché non si disperdessero alcuni aspetti dei più tragici e pericolosi che hanno attraversato la prima parte del secolo scorso».
Ci sono voluti 5 anni per arrivare all’approvazione della legge. Quali furono le maggiori difficoltà?
«Il percorso è stato lungo e difficile, perché alla prima proposta la Camera, dove io ero deputato, era molto frastagliata. L’incertezza non era sul valore in sé della proposta, ma sull’utilità e sul senso del farla, quindi avevo una platea molto divisa».
Chi la ostacolò di più tra i partiti?
«Alleanza nazionale e una parte di Forza Italia. Però in Alleanza nazionale il fatto più importante fu che Gianfranco Fini non si schierò contro. Quindi all’inizio disorientò, ma poi orientò il suo partito, dando un sostegno che non era stato previsto né immaginato. D’altra parte l’idea di avere un Giorno della memoria non nasceva per ostilità o polemica verso An, ma era semplicemente un voler stabilire che l’Italia doveva ricordare ciò che era accaduto in quel modo terribile, perché la Shoah - e questo per me è un punto importante - è un delitto anche italiano. Non era vero quello che gli americani ci dicevano nei film facendoci credere che solo i tedeschi erano responsabili delle leggi razziali. Era importante stabilire che un orrore simile, in Italia, era stato legiferato e applaudito all’unanimità dalla Camera di allora. Mi sono battuto moltissimo per questo, finché la legge sul Giorno della memoria fu approvata».
Lei proviene da una famiglia ebraica. Cosa ricorda di quegli anni in cui furono promulgate le leggi razziali?
«In quegli anni vivevo a Torino. Ricordo che i bambini delle scuole elementari venivano tutti riuniti nell’aula magna affinché ai bambini cristiani venissero indicati i bambini ebrei che sarebbero stati espulsi per sempre dalle scuole del Regno, come si diceva allora. E ricordo anche che, quando i bambini elencati furono invitati a lasciare l’aula, non ci fu un solo insegnante della scuola elementare Michele Coppino di Torino, quartiere Crocetta, ad opporsi, nessun insegnante diede un ultimo saluto, un addio agli scolari ebrei».
Molti anni della sua vita li ha trascorsi in America. Quando iniziò la sua battaglia per istituire il Giorno della memoria, nel 1996, era appena tornato in Italia. Perché decise di rientrare?
«L’inizio della mia battaglia per il Giorno della memoria coincide con la fine del mio periodo americano: il 1996. Tornai a vivere in Italia su richiesta di Prodi e Veltroni, mi candidai e venni eletto, prima alla Camera dei deputati e poi in Senato. E da lì è iniziata la mia vita in Italia da adulto. Non volevo però che la mia parte di vita da non adulto venisse trascurata o considerata un fatto normale».
Come non poteva essere considerato un fatto normale quello che raccontavano Primo Levi in “Se questo è un uomo” o Giacomo Debenedetti in “16 ottobre 1943”, che in America avevano avuto un’accoglienza simile a quella italiana, finché Philip Roth si accorse del grande valore.
«Primo Levi pubblicò il suo libro a sue spese. Persino l’editoria di sinistra era poco sensibile all’idea che non si dovesse dimenticare».
La data che lei propose all’inizio per il Giorno della memoria era un’altra: 16 ottobre 1943, ricordata per il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma. Chi le fece cambiare idea?
«Il 16 ottobre 1943 era una data alla quale io tenevo molto perché mi pareva il più orrendo e offensivo tra i tanti episodi italiani. Fu Tullia Zevi, allora presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, a suggerirmi il cambio di data. Mi disse che dovevano essere inclusi anche i prigionieri politici e militari italiani che avevano rifiutato di collaborare con i tedeschi e avevano preferito rimanere chiusi in un campo di concentramento. Tullia Zevi, che era un personaggio di grande valore intellettuale e umano, mi disse: abbiamo sofferto, ma non da soli. Mi diede un saggio suggerimento di inclusione».
Se ne parla sempre poco, ma insieme agli ebrei finirono nei campi di concentramento anche rom, omosessuali, disabili, e tanti rifugiati politici...
«In una parola gli antifascisti».
A proposito di fascismo, Casapound ha esultato dopo la recente decisione della Cassazione sul caso Ramelli, lei che ne pensa?
«Non sono assolutamente d’accordo. Quella sentenza è come se dicesse che la bestemmia è reato solo se pronunciata da un cristiano, ma non lo è se pronunciata da un non cristiano. Questo è quello che si dice del saluto romano, che invece è sempre stato accompagnato dalle parole “Salute al duce”. Quindi dobbiamo accettarlo solo perché viene fatto per il gusto di farlo? Considero quella interpretazione della Cassazione imprecisa e sbagliata».
Abbiamo visto tutti le immagini di Acca Larentia, siamo assistendo ad una nuova deriva fascista?
«Con tristezza e pessimismo dico che il fascismo in Italia è già tornato. Se il generale Vannacci può insultare in modo osceno parte degli italiani e non solo rimanere il generale ma anche essere promosso, non possiamo certo dire che siamo in un Paese democratico e antifascista. Questo vale anche per il modo in cui vengono condonati un’infinità di episodi che sarebbero fascisti. Ci sono molte frasi della Meloni che corrispondono alla struttura sintattica e logica delle frasi tipiche fasciste. Non dico che lei lo sia, ma certamente si muove e abita in un’area che deriva e appartiene ai nuovi fascisti».
Guardando all’America, invece, se Trump dovesse vincere le prossime elezioni presidenziali, cosa accadrà?
«Se dovesse vincere Trump il fatto fondamentale sarebbe la sorpresa, non nel senso di non prevedere la vittoria - che purtroppo è prevedibile - ma nel senso di non prevedere in che modo si muoverà. Non ci sarà nulla di ciò che ha già fatto, semmai peggio. E non ci saranno ripetizioni del Trump che abbiamo conosciuto, sarà una edizione nuova, peggiore e molto pericolosa».
La sua eventuale vittoria potrebbe influenzare l’andamento dei conflitti internazionali...
«Sulle questioni della guerra c’è un arco di tempo più vasto. Perfino Trump non può regolare quello che sta accadendo, c’è quasi una guerra al giorno. Gli assalti Houthi in Mar Rosso, per dire, sono di una gravità immensa se si calcolano le conseguenze».
Lei ha sempre sostenuto lo Stato di Israele, attaccato per questo anche da Sinistra già ai tempi della sua direzione all’Unità. Resta sulle sue posizioni anche oggi?
«Io sono sempre stato e rimango un sostenitore di Israele perché mi interessa la sopravvivenza e la difesa di Israele. Questi sentimenti rimangono intatti, anche se non condivido un’infinità di cose che il governo israeliano ha fatto. C’è un grande equivoco da chiarire. Condannare Israele e sostenere la Palestina per il modo in cui stanno avvenendo certi fatti non ha niente a che vedere con la Shoah e ignora il fatto che è in gioco la sopravvivenza e l’esistenza di Israele, che non possiamo abbandonare».
Sul fronte dell’antisemitismo sono stati fatti dei passi avanti?
«Passi avanti direi di no, solo passi indietro. La cosa importante è non perdere le convinzioni e le certezze di quando abbiamo scritto e approvato all’unanimità la legge sul Giorno della memoria».
Ogni anno, nel Giorno della memoria, lei incontra tanti giovani: come è la loro accoglienza?
«La reazione è sempre stata calda e affettuosa. Non so come andrà quest’anno, molte università americane si sono già dichiarate contro Israele. Il momento è drammaticamente difficile e pericoloso».