Buio in sala
Il tempo che ci vuole, le confessioni di famiglia di Francesca Comencini
Adolescenza, droga, terrorismo. Nel suo esordio alla regia la figlia di Luigi racconta “i suoi anni complicati”. E il fondamentale rapporto con il geniale papà
«Avrò diretto quaranta film tenendomi alla larga dall’autobiografia. Tu invece la fai alla prima regia. Complimenti. Ma non chiedermi di vederlo». Luigi Comencini è categorico, e se lo può permettere. Come padre oltre che come regista. Sua figlia Francesca sta per esordire con un film «sui miei anni complicati» e quelle complicazioni le abbiamo appena viste. Un’infanzia all’insegna della meraviglia accanto a quel padre che la tratta da persona, non da bambina, e la porta sul set del suo “Pinocchio” (scene incantevoli che varrebbero da sole il film). Un’adolescenza difficile, segnata da stragi e terrorismo in strada e dalla droga in casa. Poi, subdolo, inevitabile, lo scontro. Con il padre, con il suo mondo, la sua storia e la sua concezione della vita.
Ma le generazioni forse non sono così lontane se c’è di mezzo il cinema, cioè l’immaginazione. Dunque il confronto con una realtà che ti chiede continuamente di essere all’altezza dell’immaginazione, tua e altrui. Soprattutto se il cinema lo vuoi fare. Come il debutto di Francesca Comencini, “Pianoforte” (1984), anche ”Il tempo che ci vuole” è un film autobiografico. Totalmente, sfacciatamente autobiografico. In quarant’anni però Francesca ha fatto di tutto, passando da lavori molto originali (“Mi piace lavorare”; “Lo spazio bianco”, il documentario “Carlo Giuliani, ragazzo”) alla grande serialità di “Gomorra”, e sa bene cosa vuole.
Dunque: via il superfluo. Via quasi completamente Roma (salvo che per due memorabili piazze-pescecane, vedrete cosa vuol dire). Via la famiglia, la madre, le sorelle Paola e Cristina, a loro volta scenografa e regista (con il loro amoroso e collaborativo accordo). In scena ci sono quasi solo loro, Francesca (prima Anna Mangiocavallo, poi un’intonatissima Romana Maggiora Vergano) e Luigi Comencini (Fabrizio Gifuni, chi altri?).
Loro due soli, con i libri, con le immagini che quei libri evocano, con le parole dell’uno e poi dell’altra. Con i loro due corpi, imperfetti e vulnerabili, perché crescere (e invecchiare) è una faccenda fisica oltre che affettiva e Francesca riesce a puntare l’obiettivo proprio lì, alla confluenza tra queste due sfere, dove si compiono le scelte decisive.
Al resto pensa il cinema (da giovane Luigi fondò la Cineteca di Milano salvando in prima persona dal macero innumerevoli film), la miglior terapia mai inventata, nonché la più economica. La bambina che voleva essere Lucignolo, e il regista che ha diretto uno dei più bei “Pinocchio” mai visti, possono aprirsi, incontrarsi, perfino salvarsi a vicenda. Succede solo (grazie) al cinema, ma succede.
IL TEMPO CHE CI VUOLE
di Francesca Comencini, Italia. 110’
************
AZIONE!
L’educatrice e la cocotte, la pedagoga sfruttata dai maschi e la cortigiana che gli uomini li spreme. In “Maria Montessori, la nouvelle femme” Lea Todorov accosta due donne diversissime primo ‘900 in nome dell’infanzia. Spericolato ma potente, anche grazie alla Montessori filologicamente scorretta di Jasmine Trinca.
E STOP
Donne e cinema, avanti adagio. Lo dice un report dell’Osservatorio Audiovisivo Europeo: se ai 27 Paesi Ue aggiungiamo Paesi come Turchia, Svizzera, Regno Unito, Norvegia e altri, tra il 2015 e il 2023, le presenze femminili nel settore passano dal 19 al 24%. Bene registe e sceneggiatrici, maluccio le altre professioni.