“2045” è il sorprendente romanzo d'esordio della star di "Mare Fuori" che è stato ospite al Marzamemi Book Fest

Un potente tecnocrate. Un megaevento per annunciare l’invenzione di una tecnologia capace di eseguire il backup completo del cervello umano. E un blackout che manda tutto per aria: sono i Ribelli, decisi a boicottare una vita asservita al digitale. In un futuro lontano appena due decenni. Ma dove i ragazzi, visori addosso, popolano più l’AltroVerso che le strade. E un bacio o una carezza sono esplosivi di cui si è persa l’esperienza.

Babylonia, Zyon, l’Amazzone, Mr. Luce: sono tra i protagonisti di un sorprendente romanzo d’esordio, “2045” (Solferino), con la firma di uno dei personaggi più amati dai giovanissimi, l’attore e cantante Matteo Paolillo, l’irredimibile e passionale Edoardo Conte del clan dei Ricci nella serie tv dei record “Mare fuori”. Sua è “O mar for”, l’inconfondibile sigla che è parte indissolubile del successo; suoi altri brani della fiction, da “Sangue nero” a “Origami all’alba”.

 

Attore, musicista. Ora scrittore. Al Marzamemi Book Fest, il 6 ottobre, ha raccontato come è nato questo libro. Ce ne parla?

«Ho sempre avuto grande passione per la scrittura. Da ragazzino cominciavo a scrivere ma avevo in mente sempre storie troppo lunghe che non concludevo. Poi ho scoperto la musica e ho capito che attraverso le canzoni potevo sintetizzare le storie che volevo raccontare. Questi anni mi hanno messo a stretto contatto con giovanissimi, che spesso mi parlano dei loro problemi. Per raccontarli, per affrontare il malessere che mi descrivono, sono ritornato alla forma del romanzo».

 

Che cosa le raccontano?

«Mi scrivono di come la tecnologia stia avendo impatto sulla loro vita, come la usano, e la grande confusione che genera in loro. Siamo in una fase in cui non conosciamo ancora tutti i rischi ai quali andiamo incontro e, specialmente nell’adolescenza, quando la socialità è fondamentale, il digitale li influenza profondamente: spesso non riescono a distinguere la realtà dal mondo virtuale. E anzi la verità diventa quel mondo così perfetto e irraggiungibile. Questo si traduce in insicurezza personale, in senso di solitudine e in disagio sociale: i ragazzi spesso smettono di esprimersi perché hanno paura di essere giudicati, sono preda dell’ansia. Rifletto molto su queste cose. E il libro è proprio un invito a pensare bene al mondo che stiamo costruendo».

 

Chi sono questi ragazzi?

«Il mio pubblico è giovanissimo, ha tra i 12 e i 16 anni. Dalle lettere che mi scrivono questi ragazzi  dimostrano una sensibilità forte, hanno l’esigenza di capire cosa stia succedendo e di prendere in mano le redini del loro tempo. Quando io avevo la loro età non riflettevo così tanto: è questo pubblico che mi ha dato la spinta a cercare di capire l’universo dentro il quale siamo immersi, e come si può reagire». 

 

E qui arrivano i Ribelli: rifugiati in un covo di montagna, sono decisi a combattere la più grande battaglia: come restare umani. Ci sono echi antichi nel suo libro, nomi che ricordano insediamenti spaziali della fantascienza classica.

«In realtà non ho letto tanta fantascienza, Babylonia e Zion sono nomi che servono a segnalare due stili di vita opposti. Più che fare un romanzo di fantascienza volevo scriverne uno su un futuro plausibile. In compenso ho letto molto George Orwell, che è il mio vero punto di riferimento».

 

E che rapporto ha con la tecnologia? Gestisce direttamente il suo Instagram seguito da un milione e 400 mila follower?

«Sì, lo gestisco personalmente. Io sono cresciuto quando la tecnologia non era così pervasiva. So com’era il mondo prima: già questo mi aiuta a orientarmi. Posso rendermi conto di come sia studiata per creare dipendenza. E so che la vita e le cose più belle, quelle che ti rendono davvero felice, accadono off line. Appena mi rendo conto che la pressione tecnologica diventa troppo invasiva stacco. Certe mattine vado a fare colazione al bar, a comprare il giornale e lascio volutamente il telefono a casa».

 

Legge il giornale di carta?

«Sì, mi piace. E cerco di avere momenti senza cellulare. Cosa che molti giovanissimi non sono proprio in grado di fare. Ho scritto “2045” perché spero che molti ragazzi lo leggano, ne parlino e magari acquistino più coscienza della vita reale».

 

Ma lei nel 2045 come si immagina?

«Più maturo, più consapevole della mia arte. Spero di aver costruito qualcosa nella mia vita privata, sentimentale, oltre che nella carriera. E di aver viaggiato molto».

 

Verso dove?

«Mi interessano le esperienze, i posti, le persone, vorrei andare ovunque».

 

Ha lasciato Salerno per studiare da attore. In pochi anni lo è diventato.

«A 18 anni mi sono trasferito a Roma, ho frequentato un’accademia teatrale e poi il Centro sperimentale di cinematografia. Durante il terzo anno ho cominciato “Mare fuori”, ma già al secondo anno avevo fatto un film: è vero, mi sono trovato nel mondo del lavoro molto rapidamente».

 

Edoardo è il personaggio che l’ha reso un idolo per i più giovani. Che rapporto ha con lui? Lo sente come una figura ingombrante per il suo futuro professionale?

«In realtà, sono grato a questo personaggio che mi ha dato la possibilità di arrivare a un pubblico così vasto, che ora si aspetta molto da me. È certamente un personaggio distante, ma un punto di contatto da cui sono partito per arrivare a interpretarlo c’è: il rapporto con la poesia, molto presente nella prima stagione. Ho immaginato che quel contesto e le scelte che compie lo abbiano portato a reprimere la sensibilità artistica. Non mi preoccupa l’identificazione con quel ruolo, so di poter essere molto altro. E poi sono giovane, spero di raccontare altre storie forti, che emozionino e magari aiutino a cambiare le cose».

 

È un appassionato di poesia?

«Sì, mi piace. Una delle prime cose che faccio quando devo interpretare un personaggio è capire come vive, cosa legge, che musica ascolta. È il segreto di Robert De Niro: per “Toro Scatenato” ha incontrato Jack LaMotta e gli ha fatto mille domande, persino su quello che aveva in tasca. Devi riempirti la testa di mille informazioni prima di recitare, metterti in tasca cose che non sembrano necessarie. Per interpretare un personaggio così diverso da me ho letto tantissimo sul mondo napoletano, “Teste matte” (il libro di Salvatore Striano, Ndr.), Roberto Saviano. E Salvatore Di Giacomo».

 

Che studente è stato?

«Andavo bene, mi è sempre piaciuto studiare, informarmi, capire. La mia materia preferita era Storia».

 

E leggere le piace?

«Molto, quanto e cosa dipende dai periodi. In passato leggevo per lo più testi teatrali. L’ultima cosa che ho letto è la biografia di Matthew McConaughey (“Greenlights. L’arte di correre in discesa”, Baldini +Castoldi, Ndr.), ora sto per leggerne una di Dalì, mi piacciono le biografie. E i libri di Gianluca Gotto».

 

Raccontare storie, non importa la forma che prenderanno: è questo ciò che intende fare?

«Uno dei miei insegnanti diceva che l’attore è un angelo: prende un messaggio e lo consegna agli altri. Raccontare storie è una capacità umana che contribuisce alla crescita personale, sociale, a conoscerci di più. E anche a essere più felici».

 

E “2045” che messaggio lancia?

«La necessità di vivere una vita reale».