Edizioni, ristampe, campagne online di autori palestinesi. Mentre su scrittori e artisti israeliani cala il silenzio. E il dialogo in ebraico tra Mahmood Darwish e Helit Yashurun sembra il fossile di un'utopia ormai del tutto irrealizzabile. Dalla newsletter de L'Espresso sulla galassia culturale araboislamica

«Terrà altri concerti in Europa?» «No, sono stati tutti annullati. E la cosa non mi ha lasciata indifferente». Il breve scambio nella lunga intervista di Francesca Caferri alla cantante israeliana Noa per il Venerdì mi è tornato in mente quando 1500 artisti di Islanda e Finlandia hanno chiesto l’esclusione della concorrente israeliana dal festival Eurovision che quest’anno si terrà in Svezia. 

 

Lo stesso giorno sono stati annunciati i finalisti dell’International Prize for Arabic Fiction: due dei romanzi in gara sono di autori palestinesi, Osama Al-Eissa e Basim Khandaqji. Quest’ultimo è in carcere da 20 anni e, ha spiegato suo fratello, i suoi romanzi nascono «in circostanze difficili», tra spostamenti «arbitrari» da un carcere all’altro che comportano a volte «la perdita di parte del lavoro, che viene distrutto dalle guardie». 

 

Due notizie lontane tra loro portano a galla un fenomeno parallelo che va avanti da mesi nel silenzio: da quando è scoppiata la guerra a Gaza, la scena culturale mondiale ha dato sempre più spazio ad autori e artisti palestinesi, e sempre meno a quelli israeliani.

 

Sembra paradossalmente una risposta collettiva alla gaffe mondiale della scorsa Buchmesse. La Fiera di Francoforte iniziò il 18 ottobre, quindi a pochi giorni dal massacro di Hamas di sabato 7, e quando erano iniziati da una decina di giorni i bombardamenti dell’esercito israeliano sulla striscia di Gaza. Alla Buchmesse era in programma la consegna del Literaturpreis alla scrittrice palestinese Adania Shibli. Il premio fu annullato con la giustificazione di voler «dare più spazio alle voci ebraiche e israeliane». 

 

Il primo risultato di questa presa di posizione che sapeva di censura fu subito evidente: il rilancio mondiale del romanzo di Shibli (“Un dettaglio minore”, in Italia per La Nave di Teseo). Ma forse proprio a partire da quel momento è nata l’idea di «dare più spazio alle voci palestinesi».

 

Da allora per gli autori di Gaza, dei Territori occupati e della diaspora è un susseguirsi di stampe e ristampe, rilanci, interviste. La rivista culturale Arablit dedica pagine e pagine a poesie di autori che vivono a Gaza o che hanno trovato la morte sotto i bombardamenti, come Hiba Abu Nada o Refaat Alareer. 

 

Che almeno in Italia non sia un sostegno acritico lo dimostra il titolo di uno dei testi più dibattuti: “Hamas” (Feltrinelli), storia del movimento islamista dalla fondazione agli attentati del 7 ottobre firmato da Paola Caridi, giornalista con grande esperienza di Medio Oriente, per anni firma de L’Espresso.

 

Sull’altro fronte, per mesi si è visto poco o nulla. Ultimo romanzo israeliano uscito di recente che si ricordi è «Lettera d’amore e d’assenza» di Sarai Shavit (Neri Pozza). Pochi giorni dopo l’uscita, a metà ottobre, il “Manifesto” accostava un’intervista all’autrice a quella di una regista israeliana che era ospite di un festival in Portogallo. Una coincidenza simile, da ottobre a oggi non si è verificata più. 

 

Un’eclissi che si sta diradando solo in questi giorni: Amos Gitai va al festival di Belino per presentare il suo film “Shikun”; Mondadori annuncia un libro di saggi di David Grossman, “La pace è l’unica strada”; Giuntina invita a Firenze l’autrice di “La meteorologa”, Tamar Weiss Gabbay, al debutto in Italia come romanziera ma molto nota in Israele come editrice (anche di una collana bilingue arabo-ebraica). E intanto è arrivata la risposta degli organizzatori dell’Eurovision: la cantante israeliana Eden Golan parteciperà, perché «non si tratta di una gara tra governi».

 

In questi mesi sono stati pochi gli annullamenti ufficiali - “Tres piezas cortas” del coreografo israeliano Sharon Fridman, previsto per il 22 ottobre a Bologna - ma pochi anche gli eventi non annullati (i recenti spettacoli di Fridman e Noa Zuk a Pesaro). 

 

La puntata con il cuoco israeliano a Masterchef Assaf Granit, appena trasmessa, era stata registrata prima dell’estate scorsa. E la messa in onda è coincisa con una notizia importante per l’universo culinario: la guida Michelin ha annullato gli appuntamenti per la prima selezione di ristoranti israeliani, che doveva partire da Tel Aviv. 

 

Subito dopo l’inizio dei bombardamenti era trapelata la notizia di un primo annullamento importante: Apple Tv aveva sospeso la lavorazione della nuova stagione di “Tehran”, la serie sulle imprese del Mossad in Iran accolta da polemiche, ma anche da un notevole successo.

 

Tutto questo però è successo in sordina: non è l’effetto di una presa di posizione esplicita. Dopo il caso Buchmesse c’è stato, sì, un invito al boicottaggio che ha raccolto firme di scrittori famosi: il bersaglio però non è Israele, ma le istituzioni culturali tedesche. 

 

L’impressione è che in Italia (e non solo in Italia) editori, organizzatori di eventi, promoter si siano detti: «Hai visto cos’è successo con Zerocalcare che ha rifiutato di partecipare al Lucca Comics perché era sponsorizzato dall’Ambasciata israeliana, e i due fumettisti Asaf e Tomer Hanuka hanno rinunciato a partire (“Non ci sentiamo di spostarci da una zona di guerra vera verso una zona di conflitto mediatico”). Meglio evitare grane: con tanti Paesi che ci sono al mondo…».

 

In questo clima non sembra una coincidenza che sia uscita a firma del solo Mahmud Darwish (“Con la lingua dell’altro”, Portatori d’acqua) quella che in realtà è un’intervista, o meglio un dialogo serrato e sincero tra il più famoso poeta palestinese e l’intellettuale israeliana Helit Yashurun. 

 

«L’incontro fu prudente ma intimo. Avevamo piena fiducia che presto avremmo visto la pace», scrive Yashurun nell’introduzione, e al lettore empatico si stringe il cuore. «Discutemmo la nuova realtà che si stava lentamente delineando come due che si trovano al capezzale di un malato che pian piano riprende coscienza. Parlammo naturalmente in ebraico. Durante il nostro incontro a prevalere in quelle ore fra noi non fu né il politico né l’individuale, bensì una patria diversa: la poesia». Dopo quasi 140 giorni della più sanguinosa tra le tante guerre che hanno contrapposto israeliani e palestinesi, la pace sembra diventata utopica anche nel paese della poesia.