Spettacoli
Sanremo, lo specchio dell'Italia: così le "canzonette" hanno accompagnato la storia del Paese
Il festival ha spesso anticipato o descritto i cambiamenti di costume, della politica e della società in atto. Oppure, molte volte, ha proposto una contro-versione reazionaria poi spazzata via dagli eventi. Ecco perché non è un semplice evento canoro
Quando esplose il grido di Diodato sul palco di Sanremo neppure la più pessimista delle menti avrebbe potuto immaginare che da lì a poche settimane l’intero Paese sedotto da quel brano “Fai rumore” sarebbe precipitato nell’oscurità dell’assoluto silenzio. Era il festival del 2020, il trionfo della distrazione di massa con tanto di squalifica per abbandono in diretta di Bugo e Morgan, l’edizione dei Pinguini e di Achille Lauro vestito da quadro. Sembrava l’anno delle libertà. E divenne l’anno della pandemia. Perché è vero che sul palco dell’Ariston è spesso andato in onda quel che sembrava essere l’Italia del momento. Ma è vero spesso anche il suo contrario, un palcoscenico uguale e diverso, dove l’ascesa e la caduta, l’entusiasmo e la rinascita, l’oscurantismo ideologico e l’apertura mentale e politica ai nuovi linguaggi ha trovato più che uno specchio una ribalta, scendendo da quella fantomatica scala.
La prima volta fu nel 1951, serviva un’idea per rilanciare il Casinò di Sanremo e l’economia tutta. Il biglietto per sedersi al tavolo e cenare guardando quello nuovo oggetto chiamato festival costava 500 lire in tempi in cui lo stipendio di un operaio era mediamente di 30 mila lire. Venti canzoni per soli tre cantanti. Nilla Pizzi, ringraziando per dei fiori che con la città c’entravano parecchio, sbancò. Era l’inizio della sua rivincita, dopo che il regime fascista le aveva tarpato le ali perché la sua voce risultava essere troppo sensuale. Così la signora della canzone spiccò il volo l’anno successivo, intonando due brani che parlavano ai potenti (“Papaveri e papere”) e alla Trieste contesa tra Italia e Jugoslavia (“Vola colomba”).
Insomma, canzonette sì ma con uno sguardo ai tempi correnti, che chiarivano, nell’anno in cui Elisabetta II saliva al trono, che al contrario se sei nata paperina ti devi rassegnare senza appello. Con l’avvento della televisione però si cambia registro subito subito. Per moderare sul nascere toni e slanci satirici si scomoda persino Pio XII: «Ci auguriamo che la televisione sia orientata verso gli avanzamenti dei valori cristiani e non alla diffusione di costumi immorali», disse all’epoca, e il Festival versione piccolo schermo si adeguò senza battere ciglio, facendo vincere Giorgio Consolini e Gino Latilla con “Tutte le mamme”, un inno dunque perfettamente in linea con quello che il Paese andava cercando, la rassicurazione familiare del focolare acceso, niente grilli per la testa e soprattutto l’esaltazione della madre che a Sanremo diventò ben presto una sorta di filo conduttore implacabile.
Eppure persino in Italia qualcosa cominciò a muoversi da questo punto di vista, nonostante il Festival si ostinasse a non rendersene conto. A volte, bastava un gesto. Le braccia allargate di Domenico Modugno che assapora la sua rivoluzione con “Nel blu dipinto di blu”, le spalle rivolte al pubblico di Adriano Celentano per “Ventiquattromila baci” interrompevano una liturgia assodata, che si ostinava per quieto vivere a non raccontare il Paese.
Massimo esempio dello scollamento totale in questa direzione fu il 1975. In quell’anno in Italia venne riformato il diritto di famiglia ovvero parità giuridica fra i coniugi, comunione dei beni e patria podestà condivisa. Ma proprio in quell’edizione sul gradino più alto del podio salì Gilda, una quasi sconosciuta nota alle cronache per il suo attivismo anti-femminista. Il brano che la portò al successo, scritto di suo pugno, fu “Ragazza del Sud”, in cui si descrivevano le (non) gesta di una tipica fanciulla meridionale, abituata a camminare a testa bassa sulla strada che porta a messa. Le donne in piazza nei giorni del massacro del Circeo, non la presero benissimo, ma Sanremo fece finta di nulla e non solo allora. Il 1968, l'anno delle grandi ribellioni, il festival prende il coraggio a quattro mani e fa condurre Pippo Baudo, mentre la commissione scarta “Meraviglioso” perché cantare di un suicidio nell’edizione dopo Luigi Tenco sembra troppo.
È storia recente la polemica del passo indietro del primo Amadeus, vallette diventate co-conduttrici destinate al monologo forzato sui massimi sistemi, ed è storia del Festival la provocazione di Loredana Bertè del 1986, che si presentò sul palco con il pancione cantando “Re” di Mango. La canzone arrivò solo nona, ma quell’immagine di donna incinta che si scatena su un brano rock non se lo dimenticò più nessuno. Anche perché il festival di sentirsi spettinato non ne ha mai avuto una gran voglia, soprattutto negli anni d’oro quando la tradizione andreottiana dettava regole anche sul palco e il Kossigaccio di Benigni ci stava stretto.
Basti pensare che la parola sesso fu pronunciata solo nel 1978 da Rino Gaetano con “Gianna” e la censura sforbiciava qua e là alla bisogna. Pazienza che la piaga della tossicodipendenza si allargasse a macchia d’olio, ma la foglie di cocaina di Franco Fanigliulo (“A me mi piace vivere alla grande”) si trasformarono in bagni di candeggina, per non parlare del Gesù Bambino di Dalla, che con quel nome non poteva di certo bestemmiare e bere vino. Nulla da dire invece su “Luca era gay” di Povia. Nel 2009 si poteva cantare l’omosessualità come un disturbo da cui guarire, mancava ancora parecchio ai nastrini arcobaleno sul palco e alle ire di Mario Adinolfi per il festival gender di un inconsapevole Carlo Conti, che per compensare la presenza di Conchita Wurst invitò la sterminata famiglia Anania. Perché col passare degli anni, mentre Albano e Romina si promettevano “Felicità”, la protesta in qualsiasi forma divenne appannaggio della fantomatica categoria dei radical chic rigorosamente di sinistra, contro cui gli avversari politici potevano prendersela sul palco come nel Palazzo, alla fine cambiava poco.
Si ricordano le ire di Matteo Salvini («Ma è uno spettacolo o un comizio Pd?» (2013); «Sanremo è il peggio del peggio del radical chic» (2014); «Siani ironizzerà su Lega e Salvini. Con quel che costa spero faccia ridere» (2015); «Elton John non deve parlare delle unioni civili» (2016); «Amici, voi lo guardate Sanremo? Io no» (2017); «Non guardo Sanremo, ho cose più importanti da fare». (2023). Il suo anno più combattivo fu il 2019, e da Ministro dell’Interno mentre i migranti erano stati lasciati 20 giorni in mare a bordo della Sea Watch, twittava «Moscow Mule e patatine, io e Fedriga a Trieste in attesa del vincitore di Sanremo. Secondo voi chi vince? Io dico Ultimo». E invece trionfò Mahmood con “Soldi”, un milanese figlio di un egiziano. Quando si dice lo scollamento dalla realtà.
Oggi dopo la rivoluzione cominciata da Claudio Baglioni e affinata da Amadeus, all’Ariston si prova a rappresentare musicalmente quel che si muove nella pancia italica, nel bene e nel male. E per l’edizione del 6 febbraio si annunciano testi sentimentali e introspettivi, senza politica né polemiche annunciate. Sarà un caso? No, sono solo canzonette.