Protesta, resistenza, guerra civile. E la resilienza delle coreografie e della natura. Nello spettacolo "Dance is not for us" dell'artista franco-libanese, in tournée anche con il multietnico "Beitna". Dalla newsletter de L'Espresso sulla galassia culturale araboislamica

La cosa più impressionante è il silenzio. Per lunga parte dello spettacolo “Dance is not for us”, il danzatore e coreografo libanese Omar Rajeh rimane seduto a una scrivania, mentre sul grande schermo nero alle sue spalle scorrono frasi che raccontano la sua storia. Per tutto quel tempo, il pubblico che affolla il Teatro Palladium di Roma per lo spettacolo di apertura di Vertigine, la stagione 2024 del Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita/Spellbound, rimane silenzioso e immobile: non un colpo di tosse, non un commento, non un fruscìo. Una tensione palpabile che si scioglie quando finalmente si sente una musica – canzoni tradizionali – e a poco a poco Rajeh comincia a muoversi. Prima con gesti banali, quotidiani, poi con movimenti che diventano sempre più teatrali. 

 

Le frasi sullo schermo, per quanto allusive e mai didascaliche, aiutano il pubblico a capire che sì, quella che l’artista sta vagamente mimando è una manifestazione di protesta, con il suo carico di esaltazione e paura, e che quegli scatti sincopati raccontano gli spari dei militari sulla folla, l’entusiasmo collettivo che finisce in tragedia. Mentre gli uomini spargono sangue e disperazione, la natura va avanti, leopardianamente disinteressata: uniche presenze vive accanto a Rajeh, sempre solo in scena, sono decine e decine di piccole piante verdi. In ogni realtà del Medio Oriente sperare è una sfida, richiede un coraggio disumano: eppure lo spettacolo si chiude con un tono di speranza. Sorridono gli spettatori nel foyer, stringendo in mano le piantine che Rajeh e i suoi assistenti hanno distribuito in platea mentre scrosciavano gli applausi.

 

“La danza non fa per noi”, si sentiva dire in famiglia Rajeh quando, da bambino, sognava di diventare ballerino: lui che era maschio, e che cresceva in mezzo a una guerra civile. «Ma è un divieto che vale ovunque, anche se in modi diversi, che sia Berlino o Beirut», commenta a fine spettacolo, dopo essersi prestato alle domande dei giovani allievi dell’Accademia di danza. 

 

Quei movimenti naturali e insieme enigmatici sono coreografia definita o improvvisazione?, gli chiedono: «Ogni scena passa per stazioni definite ma non si ripete mai uguale», risponde. «La progressione è fissa ma i movimenti cambiano». E come arriva a controllare il corpo, con quei movimenti che sembrano staccare gli arti dal torso come se avessero centri di controllo diversi? «Il movimento parte dal torso, ma la parte più importante del lavoro è riuscire a esprimere le emozioni con braccia e gambe. Tenendo conto che comunque il risultato è uno spettacolo di danza, non un documentario…».

 

Un’allieva che prepara la tesi sugli spettacoli nati da una collaborazione gli chiede del suo rapporto con Peggy Olislaegers, che firma la drammaturgia: «È stato un legame speciale, abbiamo lavorato a distanza ma con grande concordia. Io le parlavo delle mie idee, dei miei ricordi, e lei mi ha aiutato a trovare la forma giusta per esprimerli». Le musiche? Sono un omaggio ai cantanti libanesi della sua infanzia, prima di trasferirsi in Europa (attualmente vive a Lione). 

 

Da qualche mese Rajeh è in tournée con due spettacoli della sua compagnia Maqamat: oltre a “Dance is not for us” c’è “Beitna” (“Casa nostra”), banchetto multietnico messo in scena in collaborazione con coreografi che vengono da Giappone, Palestina, Belgio e Togo (in programma a ottobre per Torinodanza). Intanto continua a sostenere il Masahat Dance Network, una rete regionale di danza contemporanea tra Libano, Siria, Palestina e Giordania, un progetto di cui è cofondatore e che si è sviluppato anche nella piattaforma Moultaqua Leymoun. Invece è stato chiuso forzatamente lo spazio per le arti dello spettacolo di cui si parla in “Dance is not for us”: Citerne Beirut, smantellato nell'agosto 2019, continua a vivere come piattaforma culturale digitale con il nome di Citerne.live

 

Con “Dance is not for us”, che ha debuttato nel giugno scorso a Beirut, il coreografo franco-libanese va al cuore della sua vocazione: «Potrebbe essere stato strano, sotto molti aspetti, aver scelto la danza in un paese che stava uscendo da una guerra civile, dalla distruzione, dalla morte e dalla perdita. Tuttavia, la danza in quel momento sembrava essere la più rivoluzionaria delle scelte, la più provocatoria e la più conflittuale», spiega. Nella sua essenzialità, lo spettacolo è un inno alla libertà e un invito a resistere attraverso l’arte alla violenza, all’indifferenza, ma prima ancora a chi, pur volendoti bene, cerca di scoraggiarti e tagliarti le ali: perché sì, dovunque tu sia, in qualsiasi contesto di pace o di guerra, di degrado scoraggiante o di soffocante perfezione, se tu lo vuoi la danza fa per te.