L’estratto
James Baldwin: «Faulkner ti sbagli, il tempo è adesso»
Nel suo libro "Nessuno sa il mio nome" lo scrittore statunitense invitava l'America a guardare se stessa, ad abbattere i propri miti e ritrovare la capacità di vedere al di là delle categorie
Ogni vero cambiamento implica la dissoluzione del mondo per come lo abbiamo conosciuto, la perdita di tutto ciò che ha contribuito a formare la nostra personalità, la fine della sicurezza. A quel punto, incapaci di vedere e timorosi di immaginare ciò che il futuro porterà con sé, ci aggrappiamo a ciò che sappiamo, o crediamo di sapere; a ciò che possediamo, o ci illudiamo di possedere. Ma è solo quando si riesce a rinunciare, senza amarezza o autocommiserazione, a un sogno a lungo carezzato o a un privilegio a lungo posseduto, che si è liberi - ci si è resi liberi - per più alti sogni e più grandi privilegi. È accaduto a ogni uomo, accade a ogni uomo, ciascuno a seconda del proprio stato, per tutta la vita. È uno dei fatti indiscutibili dell’esistenza. E l’averlo chiaro in mente, in particolare dal momento che sono un nero, mi offre la sola chiave per capire ciò che oggi succede nel cuore e nella mente dei bianchi del Sud. Gli argomenti che i rari bianchi del Sud dotati di una certa buona volontà oppongono alla necessità di una desegregazione non sono validi perché assolutamente e disperatamente disonesti, quando non addirittura insensati. Dopo più di duecento anni di schiavitù e novant’anni di semilibertà, è difficile apprezzare il consiglio di William Faulkner di “andar piano”. «Non intendono andar piano», disse un giorno Thurgood Marshall, «intendono non muoversi affatto».
Né più convincente risulta il gentiluomo di campagna di Oxford quando afferma che i bianchi del Sud, se lasciati in pace, s’accorgeranno da soli che la loro struttura sociale appare sciocca agli occhi del resto del mondo e la correggeranno spontaneamente. La struttura sociale del Sud degli Stati Uniti appare sciocca, per usare il peregrino aggettivo di Faulkner, già da parecchio tempo: ma, ben lungi dal cercare di correggerla, i bianchi del Sud, che sembrano caratterizzati da una specie di temerarietà perversa quanto disperante, si sono aggrappati a essa, nonostante gli enormi costi che implichi per loro, come fosse l’unico sistema di vita sacrosanto e onesto. Non hanno mai davvero ammesso che questa loro era una struttura sociale folle; al contrario, hanno sempre affermato che era folle chi avanzava delle critiche. Ma Faulkner non si ferma qui. Ammette la follia e l’ingiustizia morale del Sud ma, nello stesso tempo, le innalza a mistica, che in qualche modo rende ingiusto discutere di quella società nei termini in cui si discuterebbe di qualsiasi altra società. «La nostra posizione è sbagliata e insostenibile», dice Faulkner, «ma non è saggio turbare l’equilibrio di un popolo così emotivo». Se questo significa qualcosa è solo che, mi pare, l’equilibrio di questo “popolo emotivo” è stato “turbato” dalla pressione dei recenti avvenimenti, e cioè dalla decisione della Corte Suprema di dichiarare fuorilegge la segregazione. Quando la pressione venisse allentata - e non un istante prima - questo “popolo emotivo” probabilmente riacquisterebbe il suo equilibrio, e saprebbe liberarsi dall’«obsolescenza nella [sua] terra», a modo suo, naturalmente, e a tempo debito.
Resta da stabilire, tuttavia, secondo quale evidenza i bianchi del Sud avrebbero voglia o capacità di cambiare. Ed è, suppongo, impertinente chiedere anche solo cosa dovrebbero fare i neri, mentre il Sud affronta quella che, nella retorica di Faulkner, diventa qualcosa di molto simile a un’alta e nobile tragedia. (...). Non ho mai letto una dichiarazione di Faulkner sulla fine della segregazione in cui non informi che la sua famiglia aveva vissuto per generazioni sulla stessa sponda del Mississippi, che il bisnonno era proprietario di schiavi (...), Faulkner non cerca di salvare i neri, che, del resto, secondo lui, sono già salvi; che, avendo rifiutato di lasciarsi distruggere dal terrore, sono molto più forti della terrorizzata popolazione bianca; e che, ciò che più importa, sempre secondo il suo punto di vista, hanno alle spalle il governo federale. Faulkner sta cercando di salvare “il poco di bene che ancora rimane in questi bianchi”. Il tempo che chiede è quello necessario a che il cittadino del Sud si decida a scendere a patti con se stesso (...) non esiste (...). Non si può chiedere tempo, quando è in gioco la nostra salvezza. La sfida è in atto, il tempo è adesso.
da “Nessuno sa il mio nome”, © Fandango Libri 2024