Quadri visti alla Biennale di Venezia o provocazioni di artisti emergenti. E i piccioni imbalsamati di Cattelan. Esposti tra gli stucchi e gli affreschi del museo romano. Il collezionista Tony Salamé racconta una passione che lo ha portato a comprare 4mila opere in 24 anni. Dalla newsletter de L'Espresso sulla galassia culturale araboislamica

Una luce azzurra entra dalle finestre di una delle stanze dell’Appartamento Settecentesco di Palazzo Barberini a Roma, gioiello rococò generalmente chiuso al pubblico ma aperto fino al 14 luglio per ospitare alcune opere della mostra “Effetto notte. Nuovo realismo americano”. 

 

 

Quella luce azzurra sembra un accorgimento per proteggere affreschi e arredi delicati ma non lo è: si intitola “Six nights” ed è un’opera di Rayyane Tabet, artista libanese che «si è ispirato alle pellicole oscuranti che gli abitanti di Beirut incollavano ai vetri durante la guerra civile per evitare che le luci venissero viste e quindi attirassero bombe o cecchini», spiega Massimiliano Gioni, curatore della mostra insieme a Flaminia Gennari Santori.

 

Gioni è anche il più importante collaboratore di Tony Salamé, imprenditore libanese dalla cui collezione arrivano le 150 opere esposte. La fondazione che le ospita a Jal el-Dib, un sobborgo a nord di Beirut, si chiama Aishti come l’azienda di Salamé, un gruppo che gestisce negozi di moda, centri commerciali e hotel di lusso: il nome ha un doppio significato che lega due culture lontane: «L’ho scelto perché in giapponese vuol dire “ti amo”», spiega Salamé. «Ma a Beirut lo pronunciano con l’acca davanti, e suona come una parola araba che vuol dire “vita mia”».

 

 

“Effetto notte” è un’antologia di arte americana recente e recentissima. Pochi gli innesti di artisti libanesi o di stranieri che hanno conquistato critici e mercati statunitensi: come Maurizio Cattelan, “padre” dei piccioni imbalsamati disseminati sugli stucchi interni del palazzo. E poi un caleidoscopio di arte figurativa e astratta in cui ogni visitatore sceglierà i suoi beniamini: la “bandiera bianca a stelle e strisce” di Elaine Sturtevant, il cecchino di Nicole Eisenman, il trittico di Henry Taylor su Toussaint Louverture, il tagliaerba in canottiera di Duane Hanson, monumento iperrealista al “white trash” d’America. 

 

In mostra artisti famosi ed emergenti, mostri sacri e giovani promesse, opere viste alla Biennale di Venezia o nelle gallerie newyorkesi di grido o nelle più importanti fiere del mondo. E molte più artiste di quanto accade normalmente in esposizioni di questo tipo. Per una raccolta di opere di un genere che è molto difficile incontrare nei musei italiani.

 

 

«La collezione è nata ventiquattro anni fa», racconta in italiano Salamé, che è nato in una famiglia cristiana e ha la doppia cittadinanza. «Mentre ero all’università, e avevo già iniziato a lavorare, ho collezionato i primi francobolli, e tappeti. Poi mi sono concentrato sull’arte contemporanea, e ho coinvolto in questa passione mia moglie Elham e i nostri figli».

 

Come sceglie le opere, e quanto contano le scelte della moglie, che è contitolare della fondazione, e dei quattro figli? «Giro per mostre, aste, gallerie. L’unico momento di ferie per me è quando sono in una galleria e in un museo. Quando siamo a New York anche i miei figli mi segnalano opere interessanti. Mentre il ruolo di mia moglie è quasi sempre quello di cercare di frenarmi: io sono bulimico, comprerei tutto!». 

 

Il rischio è di non potersele poi godere appieno, le opere che compra: «Guardi questo cavallo di Urs Fischer (“Horse/Bed”, una scultura di acciaio e alluminio pensate una tonnellata che, ha raccontato Gioni, ha messo particolarmente alla prova lo staff del museo n.d.r.). L’ho comprato due anni fa e non lo avevo più visto. Ora lo rivedo qui, in questa sala di Palazzo Barberini, e ho la pelle d’oca».

 

Gli americani fanno la parte del leone nella collezione Salamé, ma il primo nucleo della raccolta riguarda l’arte italiana: «Quando venivo in Italia compravo arte italiana, anche del Diciottesimo o Diciannovesimo secolo. Ma un giorno un amico mi ha detto: ora devi fare sul serio, devi comprare Fontana, Manzoni. E infatti ho un buon nucleo di arte povera. Poi dal 2006 ho iniziato a concentrarmi sull'arte americana dagli anni 80 fino a oggi, fino all’ultimo minuto».

 

Le opere della Aishti Foundation, circa quattromila, sono esposte nella sede della fondazione, un palazzo progettato da David Adjaye che riunisce funzioni diverse: oltre al museo ospita un centro commerciale, un ristorante, un albergo e una spa. 

 

Un tempio del lusso che è difficile immaginare in un Paese di cui le cronache si occupano solo quando esplode il porto, scoppia la crisi economica o si accendono scontri al confine con Israele. «Ma il popolo libanese è molto resiliente. E siamo abituati a ricostruire, abbiamo la “joie de vivre”. Siamo 5 milioni in Libano e 12 milioni all’estero, ma anche chi si trasferisce non taglia mai i ponti: tutti tornano a casa appena possono».

 

 

La guerra in Israele e gli scontri con Hezbollah al confine con il Libano non hanno ridotto l’attività della fondazione: «Prepariamo una mostra per giugno, come sempre, nata dal dialogo con Flaminia e Massimiliano», annuncia Salamé. 

 

E aggiunge con un tono appena più incerto: «Sarà di Rayyane Tabet, gli abbiamo dato l’incarico più di un anno fa e ora purtroppo è un tema tornato di attualità: farà su grande scala nella sede della fondazione quel lavoro sulle pellicole oscuranti che ha fatto qui sulle finestre della stanza dell’Appartamento Settecentesco, lo ha notato?»