Le gaudenti note
Ci voleva Beyoncé per far piacere il country a tutto il mondo
Il nuovo disco della cantante texana riscopre le radici nere di un genere musicale considerato esclusiva degli americani bianchi. Una rivoluzione per gli Stati Uniti. Che finalmente avvicina il pubblico europeo a ritmi che non avevano mai avuto successo all'estero
Country, musica per bianchi? Ecco un altro dogma in pericolo. A dargli una botta da far tremare le fondamenta è Lady Beyoncé in persona. Il suo nuovo disco si intitola “Cowboy Carter”, si sviluppa lungo 29 pezzi per un totale di 80 minuti, quantomeno in controtendenza rispetto alla generale passione di accorciare e abbreviare tutto ciò che sia abbreviabile. Ma non è questo il dato più rilevante. Lo shock arriva dal fatto che, al di là del titolo, allusivo al mondo del Far West, il disco è una cavalcata dai forti accenti country, attingendo all’ultimo fortino rimasto di assoluta e incontaminata bianchitudine.
Sembra un’occupazione militare: così come insieme al marito Jay Z si era esibita tempo fa davanti alla Gioconda, prenotando il Louvre per girare il suo viceoclip, oggi sfrutta la sua potenza espressiva per appropriarsi del lessico base del folk e del country, inizia da “American requiem”, si sofferma in una cover di “Blackbird”, il pezzo beatlesiano che McCartney inventò proprio utilizzando uno schema legato al folk, e poi viaggia indisturbata nell’immaginario country, in “Smoke hour” dialoga con Willie Nelson, eroe controverso del country, uno dei fuorilegge del genere, nel singolo da classifica “Texas hold ‘em” gioca addirittura con gli stereotipi dello stile, e via dicendo.
Scompiglio. La bianchitudine del country era una delle poche certezze rimaste, e per quanto ci riguarda l’avremmo anche lasciata lì dov’era indisturbata, visto che il country è in assoluto l’unico genere americano che siamo riusciti a evitare, l’unico che non abbia colonizzato il nostro immaginario, e vivevamo felici nel ricordo esilarante dei Blues Brothers, malati di soul music, che per sbaglio arrivano in un locale di trogloditi country e succede l’inferno.
Come dire: i campi sono ben divisi, netti, con tanto di tifoserie e suprematisti bianchi schierati in prima fila a difendere la loro squadra. Viste da un punto di vista americano le cose non stanno proprio così. Ci sono fior di studiosi afroamericani che si stanno sforzando di dimostrare che l’attribuzione white della musica country è stata all’inizio del secolo scorso una forzatura di mercato, poi diventata reale, nei fatti, ma comunque arbitraria.
Tanto per sorridere basterebbe ricordare che la canzone di maggior successo di Whitney Houston, “I will always love you”, era all’origine un classico pezzo country cantato dalla regina Dolly Parton, ma effettivamente l’effetto delle due verisoni è compleamante diverso. Ora ci pensa Beyoncè a sistemare le cose. Il country, dice, può anche essere roba nostra. E chi siamo noi per contraddirla?