L’impegno per i diritti, il calcio. E ora “May December” ispirato alla cronaca. «Ci sono situazioni in cui due parti hanno un po' ragione e un po' torto - dice l’attrice - Amo le contraddizioni»

Mettersi nei panni dell’altro fino a restarne ossessionati.  È quello che capita all’attrice israelo-statunitense Natalie Portman, o meglio al suo nuovo personaggio Elizabeth nell’inquieto thriller psicologico “May December” di Todd Haynes, in questi giorni al cinema.

 

Applaudito allo scorso Festival di Cannes e in programma al Bif&st di Bari, è liberamente tratto dallo scandalo che negli anni Novanta coinvolse la statunitense Mary Kay Letourneau, rea di aver sedotto uno studente tredicenne con cui mise su famiglia una volta scontata la pena in prigione. La interpreta Julianne Moore, mentre Portman - anche produttrice del film - si sceglie il ruolo di un’attrice di fama mondiale chiamata a girare un film su di lei. Per farlo dovrà conoscerla da vicino, studiarla nei dettagli e finirà per imitarla in tutto e per tutto, in un inquietante gioco di specchi.

 

Candidato agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale, è un progetto che a Portman sta visibilmente a cuore: «Lo abbiamo girato in appena ventitré giorni e con un budget irrisorio, eppure ha la forza di mostrare che le persone, come le relazioni, sono piene di ambiguità e sfumature».

 

È vero che è stata lei a contattare il regista e non viceversa?
«Confermo, lavorare con Todd era un mio sogno, ho sempre seguito con grande ammirazione il suo lavoro, per anni gli ho mandato script e suggestioni ma nessuno sembrava essere quello giusto. Quando ha finalmente detto sì a questo ero davvero emozionata».

 

Sul set com’è andata?
«Non ha minimamente deluso le aspettative, anzi ha saputo creare un ambiente di creatività reciproca. Questo film è stato un gioco di squadra da parte di tutti, non una gara o un lavoro individualistico per mostrare il meglio di sé».

 

Le attrici Natalie Portman e Julianne Moore

 

Al centro della storia ci sono due donne diverse allo specchio: come avete lavorato con Julianne Moore?
«Abbiamo parlato molto e trovato una sintonia tutta nostra. Eravamo contente di poter dare vita a due personaggi femminili centrali e con così tanta volontà, carattere e determinazione. Sono gli uomini a essere vulnerabili, non loro, che invece sono intente a seguire i propri desideri fino in fondo, anche quelli più disturbanti, e in questo si fanno vettori di grande libertà narrativa. Una libertà che ha permesso a me e a Julianne di approfondire e raccontare le dinamiche di potere femminili, spesso invisibili e poco narrate sullo schermo».

 

Natalie, lei è un’attrice e produttrice sensibile e impegnata, non possiamo non chiederle come si senta in questo momento così complesso, politicamente e umanamente parlando.
«Questo momento mi preoccupa, come non potrebbe. Ma come al cinema ho sempre apprezzato le storie prive di una chiara distinzione morale tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, così penso che nella realtà sia ancora più complesso comprendere le diverse situazioni nel mondo, non sono mai così nette o binarie. Esistono situazioni in cui entrambe le parti hanno un po’ ragione e un po’ torto. A me interessa uno sguardo più umano sul mondo, capace di abbracciare ogni contraddizione».

 

È per questo che ha deciso di fare l’attrice, per abbracciare le contraddizioni dell’animo umano?
«Considero da sempre il mio mestiere come una pratica di esplorazione empatica. Mettermi nei panni di un altro significa considerare la sua prospettiva oltre la mia e cercare di arrivare al suo cuore. È una pratica, di fatto, anche molto politica».

 

Perché politica?
«Non è diversa dall’attenzione che ognuno di noi mette nelle cause politiche che più gli stanno a cuore. Si tratta sempre di interessarsi attivamente alla vita e alla sorte degli altri, provare a capire come si sentano e come possiamo aiutare e sostenere persone a cui teniamo, o per cui ci battiamo».

 

Il regista Todd Haynes sul set del film “May December”

 

Per chi si batte oggi?
«Per la sicurezza delle donne e delle ragazze. Mi batto per i loro diritti fondamentali, affinché possano perseguire le opportunità della vita, la parità e l’equità che a loro spetta. Confesso di essere stata molto ispirata in questo dalla sensibilità di scrittrici italiane centrali nel mio modo di pensare».

 

Quali, ad esempio?
«Natalia Ginzburg ed Elena Ferrante, davvero illuminanti».

 

Fondare una squadra di calcio femminile rientrava in questo suo attivismo per l’emancipazione femminile?
«Il bello di fare l’attrice è poter vivere molte vite. Ho sempre modo di sperimentare, esplorare, muovermi in ambiti anche molto lontani dal mio, che mi interessano e mi incuriosiscono, e ai quali finisco per appassionarmi. A volte con questa dinamica finisco invischiata in cose sulla carta improbabili che sembrano non aver niente a che fare con me, come questa squadra di calcio femminile (la Angel City FC, che ha fondato nel 2022 a Los Angeles, ndr) di cui oggi però sono una grandissima sostenitrice».

 

Nel film a un tratto rivela che nel confessare ai genitori la volontà di diventare attrice incontrò l’ostracismo di suo padre. Le è capitato anche nella realtà?
«Eccome. Compiuti venticinque anni mio padre mi prese da parte e mi disse: “Bene Natalie, parliamo del tuo diploma”».

 

E lei?
«Non capivo, gli risposi: “Papà, ma io sono un’attrice, non credo che un diploma possa arricchire la mia carriera di attrice in questo momento”. Era chiaramente convinto che la recitazione per me fosse solo un hobby e che a venticinque anni fosse arrivato il momento di fare qualcosa di “serio”».

 

Serio, tipo?
«Credo pensasse avrei studiato medicina».

 

Cosa che si è ben guardata dal fare.
«Ho voluto seguire i miei sogni, più che i suoi, e oggi ne sono felice, perché mi ritrovo tra le mani un mestiere che mi emoziona e mi consente ogni giorno di esplorare tutti gli “E se?” della vita. La considero una grandissima fortuna».

 

La partita d’apertura di The Angel City Football Club a Los Angeles

 

Il cinema sta cambiando, come lo vede diverso da quando ha iniziato lei, nel 1994?
«Oggi stiamo assistendo al decentramento del cinema come principale mezzo di intrattenimento popolare, ma non c’è da allarmarsi, tante arti hanno attraversato una fase del genere ed è interessante essere un’artista che si trova in mezzo a questo cambiamento. Se quando ho iniziato a fare cinema io un film drammatico raggiungeva un pubblico ampio, adesso lo stesso tipo di opera intercetta un pubblico diverso e una fascia d’età diversa».

 

La preoccupa?
«Noi artisti dobbiamo rispondere a questi cambiamenti in modo propositivo, al di là delle logiche del mercato. Non so come altro si possa evolvere in futuro il mondo dell’audiovisivo, ma so per certo che continuerò sempre a esplorare con curiosità ciò che troverò stimolante per me. Senza paura».