Protagonisti
Laetitia Casta: «Le influencer sembrano perfette, ma nella vita esistono anche le sconfitte»
L’esordio come modella con Jean-Paul Gaultier, il cinema, i miti Antonioni e Pasolini. La parte di Brigitte Bardot nel film su Serge Gainsbourg. L’incontro con Weinstein. E ora la violenza sulle donne nel film “Una storia nera”. «La bellezza? Una grande illusione. E la gelosia nasce dall’insicurezza»
Una, dieci, cento Laetitia Casta. Modella adolescente per Jean Paul Gaultier, biondissima nei panni scomodi di Brigitte Bardot nel film “Gainsbourg (vie heroïque)” di Joann Sfar (2010), già cover girl di magazine di mezzo mondo, poliedrica attrice. Madre di quattro figli, un tempo legata all’attore Stefano Accorsi, ora insieme all’attore e regista francese Louis Garrel. L’anno scorso Casta ha reso omaggio alle origini sfilando alla settimana della moda parigina per lo stilista che la lanciò a quindici anni; adesso dopo l’ennesimo cambio di scena è Carla, protagonista del film “Una storia nera”, diretto da Leonardo D’Agostini e tratto dall’omonimo romanzo di Antonella Lattanzi (Mondadori), prodotto da Matteo Rovere per Groenlandia con Rai Cinema. La vicenda di una donna picchiata dal marito Vito per anni, che arriva a separarsi dopo aver visto un inferno fatto di gelosia e violenza. Poi, a distanza di tempo, organizzano una cena tutti insieme con i tre figli. Dopo quella sera l’ex marito scompare nel nulla. Un thriller psicologico ad alta tensione, nel cast anche Andrea Carpenzano, Cristiana Dell’Anna e Lea Gavino. Non nasconde il suo amore per l’Italia l’attrice francese e durante l’intervista alterna le due lingue che conosce meglio.
“Una storia nera” porta alla ribalta la violenza sulle donne. Che effetto le ha fatto interpretare Carla?
«È un film ma racconta la realtà, purtroppo. Fatti che accadono ogni giorno in Italia o in Francia. In molti Paesi il femminicidio, e più generale la violenza contro le donne, è molto diffuso. Troppo».
La situazione è cambiata negli ultimi anni?
«Ci sono state imponenti manifestazioni femministe. Sembra che le cose stiano cambiando, ma troppo lentamente e troppo poco».
Le molestie sessuali e la violenza erano al centro del movimento femminista MeToo, che ha visto tante attrici in prima linea. È servito a qualcosa?
«È grazie al movimento MeToo che oggi si possono fare certi film. Quando mi hanno proposto di interpretare Carla ho accettato anche perché “Una storia nera” offre l’occasione di riflettere sul femminicidio. Come un altro lungometraggio in cui ho recitato, “Le consentement” (2023) (“Il consenso”, dal racconto autobiografico di Vanessa Springora, ndr), che qualche anno fa non sarebbe esistito. A un certo punto l’autrice ha cominciato a raccontare la propria storia: una tredicenne incontra lo scrittore cinquantenne Gabriel Matzneff, ne diventa l’amante e la musa. Il libro ha fatto scandalo, ma non al punto di diventare un film».
In “Una storia nera” la violenza si accompagna alla gelosia di Vito, l’ex marito di Carla. Questo sentimento è sempre sinonimo di violenza?
«La gelosia, in tutte le sue forme, nasce dall’insicurezza. Frasi del tipo: “Non mettere questo vestito, non guardare questa persona, non parlare alla tua famiglia, ai tuoi amici”. In ogni caso c’è la gelosia che consente di vivere e quella tossica. Come scrive Roland Barthes nel libro “Frammenti di un discorso amoroso”: “Chi sente la gelosia soffre e si sente umiliato perché prova questo sentimento”. In ogni caso, non ha nulla a che fare con l’amore».
Serve coraggio per portare sul grande schermo storie vere?
«Voi, in Italia, avete avuto esempi straordinari, grandi registi ribelli e impegnati come Pasolini e Antonioni. Il cinema politico può cambiare le cose. Di recente ho recitato in “Una giornata particolare”, la versione teatrale di un film che racconta in maniera inedita l’omosessualità, la solitudine e la condizione femminile. Un maestro e un visionario, Ettore Scola, mezzo secolo fa aveva capito che per gli omosessuali il cambiamento passava dal cambiamento per le donne».
Di recente ha raccontato a una tv francese di aver conosciuto Harvey Weinstein al festival di Cannes diversi anni fa. Ha riferito di alcune domande private e imbarazzanti a lei rivolte dal potentissimo produttore di Hollywood al centro dello scandalo MeToo, condannato per stupro e violenza sessuale. La sua testimonianza ha fatto molto discutere: perché ha sentito la necessità di raccontare?
«Non ho avvertito la necessità di parlare di Weinstein, è stata la giornalista che ha insistito tre volte. Quando l’ho incontrato avevo 35 anni e una lunga carriera alle spalle. Ero in grado di tirarmi fuori da una situazione complicata, non tutte hanno questa fortuna, e comunque non mi sono mai trovata in una stanza d’albergo con lui».
Lei è attrice e top model. Che rapporto ha con la sua immagine?
«Non bisogna prendersi troppo sul serio, cerco semplicemente di divertirmi».
Cos’è la bellezza per lei?
«Significa essere connessi con i propri progetti e i propri desideri. E poi la bellezza non va riferita solo agli esseri umani: un film, ad esempio, può rendere la vita più bella».
Per esempio?
«Tanti. Quelli di Bergman o “L’avventura” di Antonioni, ma anche i lavori di Jean Renoir. Mi viene in mente “Mouchette” (“Tutta la vita in una notte”, 1967) di Robert Bresson perché mette al centro la bellezza e la poesia tragica. Mi tocca molto, è bellissimo. Per non dire “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini: Anna Magnani è una leonessa con una grande bocca spalancata, un tripudio di energia e generosità. Un’attrice incredibile e una donna straordinaria».
Nei social dilaga l’illusione del corpo perfetto. Cosa ne pensa?
«Quando ho cominciato come mannequin era tutto diverso. Oggi c’è Instagram: le modelle sono imprenditrici, creano la propria immagine in maniera indipendente, gestiscono da sole il proprio gioco di seduzione. Spesso si dice che siano oggetti, non è vero: si autoproducono. Il lato negativo è che realizzano immagini perfette di vite perfette, case e hotel perfetti, storie d’amore perfette. Per i giovani tutto questo è deleterio: porta solitudine e complessi di inferiorità. Perché in realtà la vita è fatta di momenti grandiosi e di sconfitte».
L'anno scorso sfilò per Jean-Paul Gaultier alla settimana della moda di Parigi dedicata all’Haute Couture, conquistando, di nuovo, una standing ovation. Perché è così importante lo stilista francese?
«Jean-Paul Gaultier ha fatto molto per la moda, ha reinventato dei codici. È stato un precursore, un innovatore, un visionario: per primo, venticinque anni fa, ha dato spazio alla diversità, coinvolgendo gente di cultura diversa. E ha avuto una sensibilità ecologica, riutilizzando materiali in tempi non sospetti. Quando a 15 anni mi sono presentata al suo casting c’era solo gente con piercing e tatuaggi, io avevo la mia cartella di scuola. Mi accompagnò mio padre, gli dissi: “Non è qua, è l’indirizzo sbagliato”. “No, no è qui, bisogna aspettare un po’”, mi rispose. Ho fatto la fila per un’ora. Ricordo bene: c’era una scala rotonda, mi sporgo e mi rendo conto che c’è davvero Jean Paul Gaultier. Non immaginavo che fosse lì in persona per il casting. Ero sotto choc, di me penserà che sono una bambina mi dicevo. Indossavo un vestito da uomo molto grande, nella mia testa mi sono detta: “Non mi prenderà mai”. E invece mi ha preso proprio perché ero così diversa, non c’entravo nulla con gli standard della moda. Così ho sfilato per la prima volta”.
A proposito di miti, nel film «Gainsbourg (vie héroïque)» di Joann Sfar lei interpretò Brigitte Bardot. Cosa ricorda di quell’esperienza?
«Nel mondo della moda Brigitte Bardot è sempre stata una fonte di ispirazione per i couturier, le redattrici dei magazine, la gente della moda. Mi è capitato spesso di vedere della foto dei suoi shooting. Avevo in mente da qualche parte, fin dalla mia giovinezza, l’immagine di BB. Quando mi hanno proposto di fare un film, è stato molto interessante costruire il personaggio al tempo stesso dovevo rispettare la realtà ma anche inventare cose che non si sapevano di lei. L’ho chiamata perché non volevo si offendesse. La rispetto molto, dunque volevo condividere le mie scelte con lei. Quando mi ha detto: “Figurati, sono felice”, mi ha molto aiutato per il personaggio. Mi ha raccontato cose e aneddoti intimi, come avevano vissuto la loro storia d’amore, lei e Serge Gainsbourg. Ci siamo parlate diverse volte. Era molto trasgressiva, veniva da una famiglia borghese, attraverso la sua immagine ha portato una ventata di libertà, il fatto di essere un sex symbol in un’epoca in cui non si potevano mostrare neanche le gambe. Era un simbolo: tutte le donne volevano acconciare i capelli come lei. A proposito delle sue storie d’amore mi disse una volta: “Gli uomini? Sono come i dolci in una boulangerie: scelgo quello che voglio. Quando desidero un uomo perché privarmene?”. Era molto moderna per l’epoca”.
Quindi ha dato il proprio contributo alla causa delle donne, anche in maniera a volte inconsapevole?
«Credo che ne fosse molto consapevole in realtà, ne ha anche sofferto. È stata maltrattata, derisa, si vede bene nel film “La verité” di Clouzot (Henri-Georges, ndr) il processo subito da Brigitte Bardot, un po’ come Marilyn Monroe a Hollywood. Era ritenuta una bionda superficiale, poi si è scoperto che compose poesie magnifiche».