Era un soldato. Ha pubblicato un bestseller. Per colpa di un ordigno inesploso ha perso le gambe. Ora è tornato a scrivere, per raccontare che la scienza è già il nostro più potente alleato

Il suo libro precedente, “Anatomia di un soldato”, era un memoir sull’esperienza in guerra raccontata attraverso il kit di un militare. C’era, in quel catalogo di cose, anche l’ordigno che gli ha straziato le gambe: Parker, figlio di un generale inglese che ha diretto le forze Nato in Afghanistan, ha combattuto in Iraq quando aveva solo 23 anni, e qualche anno dopo in Afghanistan. È lì che una mina lo ha privato dei suoi arti inferiori.

 

Una decina d’anni dopo, con svariati interventi chirurgici alle spalle e lunghi periodi di riabilitazione, Parker ha scritto un altro libro che non è solo un’eccezionale testimonianza di vita. Ma un lembo sollevato a sbirciare il futuro: “Umani Ibridi” (Edizioni SUR, tradotto da Martina Testa), come la tecnologia può cambiare i nostri corpi. Rivoluzionare l’idea di disabilità. Cancellare la condanna a dipendere per il resto della vita dagli altri. E lanciare una prospettiva: usare la scienza per costruire corpi davvero in grado di esprimere la nostra identità, la nostra sessualità, il nostro genere: chi siamo.

 

Harry Parker, 40 anni, è a Roma per uno degli incontri più attesi della XIX edizione del Festival delle Scienze, prodotto dalla Fondazione Musica per Roma all’Auditorium Parco della Musica.

 

Ed è lì che lo incontriamo, per questa intervista esclusiva che intreccia racconti di dolore e di tenacia, ironia, speranza. E meraviglia: le sue gambe sono gioielli di tecnologia, una guaina che si aggancia alla carne, ginocchio bionico con microprocessore, guscio in fibra di carbonio nero matt su lamine di metallo e la protesi collegata in Bluetooth a un’app sul cellulare per cambiarne impostazioni e modalità d’uso lo fanno apparire più che un invalido di guerra il sogno realizzato di un artista contemporaneo. E in fondo anche la prova di quanto siamo naturalmente predisposti per il plug and play, sottolinea con un sorriso lui: pronti a integrarci con le macchine. Perché senza essere body hacker, gente che deliberatamente tenta di potenziare sé stessa con dispositivi cibernetici in grado di estendere le capacità umane e consentire prestazioni migliori, tutti, chi più chi meno, subiamo delle perdite che compensiamo con la tecnologia: un passmaker, un sostegno per l’anca, un dispositivo acustico, una valvola cardiaca, una protesi per aumentare la grandezza del seno: l’artificiale è già tra di noi. Parker, ci sta forse dicendo che la disabilità non esisterà più, che l’amputazione non è più un’eccezione: che siamo un po’ tutti umani ibridi?

 

«È eccessivo dire che la disabilità non esisterà più. Certo, indossare questo tipo di protesi mi dà una libertà che mi consente di dimenticare per qualche tempo le mie difficoltà. E questo dimostra anche quanta capacità di adattamento abbia la nostra mente rispetto ai cambiamenti del corpo», dice: «Però, se le batterie della protesi sono scariche, se i miei bambini mi chiedono di giocare a calcio o se devo fare una rampa di scale molto lunga lo spettro delle mie possibilità diminuisce, si sposta decisamente verso la disabilità». E i limiti si fanno risentire. Anche se le possibilità di fondere uomo e macchina sono oggi più vaste che mai. E destinate a circolare. A mano a mano che la tecnologia migliora aumenta anche la probabilità di utilizzare nel corso della vita un ausilio esterno, un dispositivo impiantabile o solo indossabile: retine artificiali e impianti cocleari che correggono il malfunzionamento dei sensi (600 mila persone nel mondo ne hanno già uno, sostiene lo scrittore), protesi che favoriscono la mobilità del corpo, sistemi di drenaggio che aumentano le aspettative di vite improvvisamente frenate da un trauma, una malattia, un incidente.

 

Harry Parker

 

Corpi mutanti, che si dotano di funzioni ed estetiche nuove: Parker dimostra che di corpo non ce n’è uno solo. E che anzi è tempo di separarci da un’idea di fisicità dalle forme “normali”: «Devo ammetterlo: la mia stessa idea dell’amputato era stereotipata e polarizzata al massimo», scrive: «A un estremo vedevo il senzatetto che chiedeva l’elemosina a un angolo della strada con una gamba dei pantaloni vuota; dall’altro vedevo il superuomo che affrontava di slancio la curva della pista di atletica su una lama in fibra di carbonio».E invece no: è la varietà la sfida che attende la contemporaneità. Anche se diffidenza e prevenzione di chi guarda sono questioni sociali e culturali importanti. E pure il linguaggio stenta: è un cyborg, lei? «Non è una parola che mi piace. Rimanda a troppe narrazioni di fantasia e di aspettative irrealistiche». Diversamente abile? «Sembra un gioco di parole». Umano ibrido, dunque: fusione, amalgama, confluenza tra uomo e macchina.

 

«So che le mie menomazioni fanno voltare la gente per strada», scrive: «Ma sono fortunato: è il modo in cui ho riparato il mio corpo. L’ho riparato con l’oro», dice: «Come fanno i giapponesi con l’antica tecnica del kintsugi sulle ceramiche: la rottura, visibile, diventa parte della storia dell’oggetto grazie a quell’oro che lo ricuce e il tempo impiegato per eseguirla ne accresce il valore. Naturalmente, questo è il mio modo di sentire le cose e questa è la mia reazione a un incidente così grave, ma so bene che non per tutti è così. Si dice che quello che non ti uccide ti rende più forte: una scemenza, non è mica vero. Rispetto a un trauma, ognuno ha risposte diversissime».

 

Non nasconde un aspetto decisivo, Harry Parker: quello economico. Sa di appartenere a un mondo privilegiato, che ha accesso a soluzioni sperimentali e costose, non certo alla portata di tutti: la sua protesi, Genium X3 prodotta da un’azienda tedesca, costa 70 mila sterline. Prodotto di un settore - la tecnologia medica - in netta crescita: solo in Europa vale 120 miliardi di euro.

 

Allinea numeri impressionanti Parker: secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, sono circa 15 ogni cento le persone con una disabilità, e fra le due e le quattro ogni cento quelle con disabilità grave. Ci sono 65 milioni di persone che girano in sedia a rotelle (e fra i dieci e i venti milioni quelle che ne avrebbero bisogno ma non possono permettersela). Cifre in aumento: nel prossimo trentennio il numero di persone sopra gli ottant’anni dovrebbe almeno quadruplicare, arrivando a 395 milioni. In Europa, attualmente ci sono circa 40 milioni di persone che non possono camminare senza un ausilio di qualche tipo.

 

«Penso spesso alle persone che non potranno mai permettersi queste attrezzature», dice Parker: «Purtroppo tutto dipende dal Sistema sanitario del Paese in cui si vive. E spesso, al suo stesso interno, ci sono discrepanze: io mi avvalgo di un Fondo per i feriti di guerra che permette l’accesso a queste tecnologie avanzatissime. Nella sala d’aspetto di un centro protesi mi è capitato però di stare accanto a una persona che aveva perduto tre arti per una meningite infantile e non aveva diritto a tutto ciò. E stiamo parlando della Gran Bretagna. Figuriamoci quante differenze possano esserci a livello globale».
Se Parker è per certi aspetti un pioniere dell’integrazione corpo-macchina e nello sperimentare la neuroplasticità che consente agli umani uno straordinario adattamento («usare le protesi mi è venuto intuitivo. Quando guardo i miei piedi, anche se artificiali, li sento ormai, decisamente, come una parte di me»), il suo viaggio apre scenari futuristici fondamentali sulla tecnologia per migliorare la vita: assistenti vocali, linguaggio dei segni incorporato alle videochiamate, funzioni di controllo elettronico per le persone con disturbi motori. Solo le frontiere del transumanesimo, lo sforzo di emancipare l’uomo dalla carne alterando chimica e genetica del corpo per inseguire la longevità o addirittura l’immortalità, lo lascia tiepido: «Ho come la sensazione che la morte sia importante per dare un significato alla vita», aggiunge: «Non so spiegarlo bene ed è un’opinione personale. Ma credo che una vita senza la prospettiva della fine perda di significato. Io sono morto varie volte e sono stati momenti di enorme solitudine. Però, quando sento di transumanisti che immaginano di sconfiggere la morte, faccio un passo indietro. Troppe cose terribili nella storia sono avvenute a partire da questo delirio di controllo e di onnipotenza».

 

Perché mentre ragiona di tecnologie e sperimenta i più innovativi sistemi di riparazione, Parker scopre di più della mente. E molto ha imparato dal dolore: la tecnica può trasformare il corpo, ma non evitare la sofferenza?
«C’è un luogo preciso del dolore, ed è dove si interfacciano la materia organica e quella tecnologica: questo incastro nei tessuti in cui la tecnologia si colloca può fare davvero molto male - ma pensate al dolore al collo che viene quando stiamo tutto il giorno piegati su un telefonino: l’incontro tra noi e la tecnologia ha sempre qualche conseguenza fastidiosa», dice con ironia: «Ho conosciuto il dolore acuto, è vero: quando ho perso le gambe, enorme. E poi ho provato il dolore che si cronicizza. Però è interessante anche il dolore psicologico, quello che subentra se per esempio mi rendo conto di aver dimenticato la batteria della protesi dovendo fare un viaggio lontano o se c’è un guasto ai dispositivi. C’è poi anche un dolore che chiamo fantasma: il dolore che sembra provenire da una parte del corpo che non esiste più. Però devo dire che più porto le protesi, meno lo avverto, perché il cervello si abitua».

 

E ci sono anche i doni che la disabilità gli ha fatto. Forse è per questo che all’inizio di “Umani Ibridi” mette le cose in chiaro: se mi offrissero la possibilità di evitare l’incidente, la rifiuterei.
«Perché non avrei la vita che ho oggi se non lo avessi avuto», ribadisce: «Probabilmente sarei ancora nell’esercito, non avrei incontrato molte persone interessanti, forse neppure la mia compagna. Non voglio negare tutto quello che ho vissuto da quel momento in poi. Accetto profondamente quello che mi è capitato. E devo riconoscere che l’incidente mi ha reso davvero più empatico verso gli altri, più capace di ascoltare, di vedere modi diversi di stare al mondo. Ora so cosa vuol dire essere altro. Avrei potuto vivere tutta la vita senza l’apertura di sguardo che sento di avere ora. Arrivo a dire di essere felice per ciò che mi è capitato: ho pagato un prezzo alto, ne valeva la pena». E che idea le resta della guerra? «Non mi sono arruolato per motivi politici o religiosi. Provengo da una famiglia di militari che da secoli lavora nell’esercito inglese: fare il soldato è stata una scelta naturale. La guerra è una cosa troppo complicata per esprimere idee definitive, non me la sento. Le dico però che ho sempre guardato con sospetto a ogni forma di fanatismo. Nella mia esperienza i soldati migliori sono quelli che odiano la guerra».