Archeologia

L'Ara Pacis tra misteri, seduzioni e tradimenti

di Marisa Ranieri Panetta   22 maggio 2024

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La facciata posteriore dell'Ara Pacis con i rilievi della Saturnia Tellus

La funzione sociale e politica del teatro nell’antica Roma è al centro di una grande mostra. Un’occasione per ripercorrere il fascino di un monumento tra storia, propaganda e architettura

Erano oltre mille i teatri esistenti nell’antichità. Se nel II sec. d. C. un viaggiatore, anzi un globe-trotter appassionato di opere teatrali fosse partito, ad esempio, dalla spagnola Italica per arrivare a Palmira, in Siria, avrebbe potuto assistere ovunque ai suoi spettacoli preferiti. Era il fascino del palcoscenico, dove le “finzioni” rappresentavano la vita reale: misteri, seduzioni, tradimenti, atti eroici e meschini, che si scontravano/comunicavano con il soprannaturale. Per ripercorrere le origini del teatro e la sua evoluzione a Roma, il museo dell’Ara Pacis esporrà dal 21 maggio (fino al 3 novembre, catalogo “L’Erma” di Bretschneider) 240 reperti nella mostra promossa da Roma Capitale: “Teatro. Autori, attori e pubblico nell’antica Roma”.

 

«È un’iniziativa molto importante», dice Claudio Parisi Presicce, sovrintendente capitolino ai Beni culturali. «Nel raccontare infatti lo sviluppo del teatro antico da vari punti di vista, ne evidenzia la funzione sociale e politica. È un’arte che non ha confini ed è arrivata fino a noi perché, durante la messa in scena, avviene un identico processo di immedesimazione e di riconoscimento da parte del pubblico. E questa  rassegna propone un’immersione nel teatro classico privilegiando il filo della continuità e del senso di comunità».

 

Maschera di attore di Farsa fliacica a Taranto

 

La mostra, ideata e curata dalle archeologhe Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo, comprende sette sezioni, dalla genesi all’attualità del Classico. Tutto è iniziato in Grecia, dove - in onore del dio Dioniso - i grandi tragediografi animarono di gesti e parole gli eroi cantati da Omero e i protagonisti di miti trasmessi nei secoli. Il fine etico delle opere era sempre la “catarsi” dello spettatore: la purificazione dalle passioni, dopo aver assistito alle conseguenze di infrazioni a regole civili e religiose. Nei concorsi ateniesi, le trilogie di tragedie si chiudevano con drammi satireschi, improntati al grottesco; in mostra, significativo è il cratere (dal Mann di Napoli) del pittore Pronomos, dove musicisti, coreuti, attori, sono coinvolti in un’allegra festa dionisiaca.

 

La vicinanza a temi più vicini alla quotidianità spetta alla commedia greca, iniziando con le creazioni di Aristofane nel V sec. a. C. e culminando in seguito con Menandro, anticipatore del dramma borghese in un linguaggio elegante. I diversi palcoscenici si diffondono nel mondo etrusco e nell’Italia meridionale. I reperti del Marta di Taranto offrono una passeggiata nelle rappresentazioni della Magna Grecia: statuette di attori, danzatori, e una produzione vascolare che attinge alle opere greche e alle farse “fliaciche”.

 

Nel teatro romano confluiscono tutte queste forme di messe in scena rivelando con originalità la sua stratificazione culturale. Se la tragedia deriva dai modelli ellenici, la commedia, specialmente quella di Plauto, è intrisa di “acetum” italico. Nel periodo imperiale si assiste al sopravvento di spettacoli più popolari, ammiccanti, come il mimo e la pantomima, con interpreti idolatrati dal pubblico (una stele da Aquileia ricorda l’attrice Bassilla). Gli attori portavano maschere di tipi convenzionali: l’avaro, il servo furbo, l’adultera, eccetera. Molte maschere saranno presenti all’Ara Pacis, come quelle che si vedono, negli affreschi pompeiani, sbucare da festoni o appese (“oscilla”) per decorare giardini.

 

Cratere di Pronomos al Mann di Napoli

 

I primi teatri stabili di Roma risalgono al I sec. a.C. Nella rassegna, ci saranno diversi modelli: da quello monumentale di Pompeo a quello della libica Sabratha, dotato di una “frons scenae” su tre ordini di colonne e nicchie: gli sfondi monumentali dei teatri imperiali aumentavano la spettacolarità e favorivano il consenso per gli organizzatori.

 

L’ultima sezione della mostra, tra manifesti e approfondimenti del “Vantone” di Pasolini, ispirato da Plauto, ci riporta all’attualità. «La tradizione classica dimostra la sua longevità e freschezza con le opere che da oltre un secolo organizza a Siracusa l’Istituto del Dramma Antico», sottolinea Lucia Spagnuolo, responsabile del museo. «A documentarlo, saranno proiettati mixage dei loro spettacoli».

 

Ma non finisce qui. Seguiranno eventi e incontri nel segno di Talia e Melpomene, Muse senza tempo. Il museo che ospita la mostra prende il nome da un monumento di marmo ispirato alla Pace e, come tutte le pacificazioni raggiunte a caro prezzo, anche l’Ara ha dovuto affrontare una storia tribolata.

 

Era stata eretta dal Senato per onorare la “pax” raggiunta da Augusto dopo anni di guerre. L’altare era circondato da un recinto su podio, che ancora possiamo ammirare nelle raffigurazioni del cosiddetto classicismo augusteo: decorazioni vegetali, animali veri e fantastici, scene inneggianti alle mitiche origini dell’Urbe.

 

Recupero di una lastra nel 1903

 

A celebrare il benessere raggiunto, spicca il rilievo della “Saturnia Tellus”, la Terra rigogliosa di frutti, simbolo di una nuova età dell’oro, che appare come una madre dolce con due neonati fra le braccia. Il monumento è caratterizzato dal corteo che si snoda sui lati lunghi del recinto e ricalca la processione che si svolse alla sua inaugurazione, il 30 gennaio del 9 a.C. Sul lato meridionale, fra i sacerdoti, appaiono Augusto e, dietro, Marco Vipsanio Agrippa; quindi, la moglie Giulia (con ogni probabilità), Tiberio, Druso con Antonia Minore, e poi altri parenti e bambini, che proseguono sul lato opposto.

 

Nella “foto” della famiglia più prestigiosa dell’epoca, i romani potevano riconoscere i vari protagonisti con facilità perché l’Ara Pacis era a colori, come hanno evidenziato le ricerche.

 

L’Ara, posta su un grande piazzale di marmo, sopravvisse a Vandali, Visigoti e incendi. Esisteva ancora nell’undicesimo secolo, quando arrivarono i soldati di Roberto il Guiscardo, ma non sfuggì alle successive devastazioni. Si persero le tracce fino al 1566, quando sotto il palazzo Peretti - angolo tra piazza in Lucina e via del Corso - apparvero nove grandi blocchi  marmorei, con figure su entrambi i lati, considerati solo pregevoli opere d’arte. Il cardinale Ricci di Montepulciano li acquistò, li fece resegare e ne inviò una parte al granduca di Toscana; gli altri pezzi finirono in musei stranieri e nella sua Villa Medici in costruzione, dove tuttora alcune lastre sono inserite nelle murature.

 

Tre secoli dopo, altri marmi tornarono alla luce durante i lavori di consolidamento del palazzo, divenuto proprietà del duca di Fiano, che non furono connessi ai precedenti; è stato merito dell’archeologo Friedrich von Duhn, alla fine dell’Ottocento, fare per primo il nome dell’Ara Pacis. Si arriva così al 1903, quando il nuovo proprietario Edoardo Almagià decide di continuare le ricerche, offrendo allo Stato ogni futura scoperta. L’esplorazione è ardua, a causa della falda freatica che interessa la zona; si deve procedere per gallerie, ma non è possibile estrarre grandi reperti senza nuocere alla staticità dell’edificio. Sono così interrotti i lavori, dopo aver rilevato metà del monumento e recuperato molti frammenti.

 

È del 1937 la svolta definitiva. Con un escamotage. Costruito un cavalletto in cemento armato nell’angolo esterno del palazzo e altri pali in cemento di appoggio, si fece tesoro del brevetto di Peroni per raffreddare la birra: tutte le fondamenta furono congelate con emissione di anidride carbonica liquida in tubature e così, lavorando all’asciutto, vennero estratti i reperti. I vuoti furono sostituiti da altri blocchi.

 

L’anno dopo ricorreva il Bimillenario Augusteo, fiore all’occhiello del regime fascista, e l’archeologo Giuseppe Moretti fu incaricato - in un tour de force - di ricostruire l’Ara nel Museo nazionale romano. Inserendo calchi delle lastre mancanti, tutto fu pronto per la visita di Adolf Hitler. Nello stesso tempo, per sistemarla in uno spazio adeguato fu realizzato in fretta, semplificandolo, il progetto dell’architetto Vittorio Ballio Morpurgo: un Padiglione vicino al Mausoleo di Augusto, rialzato rispetto alla piazza. Il 23 settembre del 1938, giorno natale di Augusto, Mussolini tagliò il nastro dell’inaugurazione.

 

La facciata dell’Ara Pacis illuminata dalle luci

 

Col passar del tempo l’Ara, isolata sulla sua scalinata, fuori dalle mete turistiche, soggetta a deterioramento, era visitata soprattutto da volenterose scolaresche. Tra le proteste di associazioni cittadine e le più diverse proposte per la sua valorizzazione, è solo nel 1998 che si giunge alla soluzione: il Comune - sindaco Francesco Rutelli - affida al famoso architetto Richard Meier il compito di elaborare un vero e proprio complesso museale. Le critiche non sono mancate; ma alla fine, superati i controlli e ottenute le approvazioni alle modifiche dagli organi competenti, Meier ha portato a termine il suo disegno nel 2006.

 

Oggi l’Ara Pacis, protetta da vetrate speciali, è visibile giorno e notte a chiunque attraversi il Lungotevere. I visitatori possono godere di guide, ricostruzioni virtuali, ascoltare conferenze nell’Auditorium, visitare gli spazi che ospitano un’esposizione permanente, mostre come quella odierna e, fuori dal complesso, leggere le “Res Gestae”, il testamento di Augusto.