Un italiano, un armeno e un curdo. E la loro importanza per la costruzione dell'Egitto moderno. Il romanzo premiato dal più importante premio per la lingua araba è un omaggio all'importanza dell'immigrazione. Ce lo spiega l'autrice Reem Bassiouney. Dalla newsletter de L'Espresso sulla galassia culturale araboislamica

Si chiama Reem Bassiouney, ha appena vinto lo Sheikh Zayed Book Award per “Al Halwani, la trilogia della dinastia fatimide”. Ma se cercate un suo curriculum lo troverete infarcito di saggi di linguistica: in effetti finora la linguistica è stata il suo primo lavoro, che l’ha portata dall’Egitto a Oxford e Salt Lake City. Anche se può darsi che le cose cambino ora che il premio la lancia nel mondo della letteratura di lingua araba, e anche in quello delle traduzioni, che sono cofinanziate dall’organizzazione dello Szba. In occasione della premiazione alla Fiera del libro di Abu Dhabi, abbiamo parlato con Bassiouney del suo libro e della sorpresa che esso riserva ai lettori italiani: uno dei protagonisti è siciliano, ed è il fondatore della capitale egiziana.

 

Si aspettava di vincere?
«Beh, ci ero andata vicino l’anno scorso, con un’altra trilogia storica. Ora che l’ho vinto sono onorata, ovviamente, ma anche spaventata: è una grande responsabilità, significa dover tenere lo stesso livello di scrittura, d’ora in poi. Sono sempre preoccupata di scrivere bene, e quando dico sempre intendo dal mio primo romanzo: l’ho scritto che avevo 12 anni!»

 

Un vero romanzo?
«Sì, ho anche disegnato la copertina e l’ho rilegato in una specie di bloc-notes. Ma in realtà allora ero molto più sicura di me e di quello che scrivevo. Man mano che la mia carriera di scrittrice va avanti e che il mio successo cresce, mi trovo a chiedere sempre più spesso alla mia famiglia e ai miei amici: pensi che quello che scrivo sia abbastanza buono? Pensi che meriti di essere pubblicato? Ora con questo premio sono felice di avere accesso non solo al mondo arabo, dove in realtà i miei libri sono già bestseller, ma anche alle traduzioni».

 

Alcuni suoi libri sono già stati tradotti in inglese, ma non in italiano…
«Sì ma spero di farmi conoscere di più fuori dal mondo arabo. Ci tengo particolarmente perché io non scrivo solo di egiziani o arabi, ma di esseri umani. In particolare la trilogia fatimide, che ha vinto il premio, parla di un italiano, anzi di un siciliano. Di una persona portata a vivere in Egitto dalle circostanze della vita e della storia, e che ha contribuito a costruire l’Egitto: anzi, è proprio il fondatore del Cairo, la capitale».

 

Ma è storia o romanzo?
«È una storia vera ma poco conosciuta. I fatimidi arruolavano soldati di tutto il mondo. Uno di loro, che poi prese il nome, Jawhar al-Siqilli, dall'isola da cui proveniva, diventò un membro di fiducia della corte dei fatimidi. Il califfo gli ordinò di conquistare l’Egitto, lui fu apprezzato dagli egiziani e rimase al potere per quattro anni. In questi anni fondò il Cairo e fece costruire la moschea di Al Azhar, che è ancora il cuore della città, e alcuni palazzi che la circondavano. La prima parte del mio libro è costruita intorno a lui e alla sua famiglia. Ma anche il protagonista della seconda parte è uno straniero: un armeno. Lui è la persona che salvò l’Egitto da una terribile carestia: gli storici raccontano episodi di cannibalismo, di bambini rapiti e divorati, mentre infuriava una guerra civile. Questo soldato armeno prese il potere e riorganizzò il Paese, dividendolo nei 28 distretti che sono in funzione ancora oggi».

 

Quindi un italiano, un armeno, e poi?
«Un curdo: si chiamava Salah al Din».

 

Ah, il famoso Saladino…
«Lui è quello che segnò la fine della dinastia fatimide. E questi tre stranieri sono diventati l’Egitto, sono sepolti qui, hanno costruito l’Egitto. La storia la scrivono gli esseri umani, non la nazionalità o la provenienza di ciascuno di loro. Per questo sono particolarmente contenta che proprio questa trilogia abbia vinto il premio: perché se la prima che ho scritto si riferiva in particolare all’Egitto, questa parla di esseri umani. E penso che la forza dell’Egitto sia stata storicamente proprio la capacità di abbracciare persone diverse, dar loro la possibilità di prosperare, di costruire, di fare la differenza. È così che dobbiamo comportarci anche oggi con gli immigrati: se gli diamo fiducia saranno loro a arricchire e costruire la nostra cultura».

 

Quando parla di costruire lei si riferisce proprio agli edifici, vero? I suoi romanzi sono legati alla storia dell'architettura. 
«Il primo romanzo storico che ho scritto era sul mamelucchi: anche loro non erano di origine egiziana, ma se guardi al Cairo quasi tutte le costruzioni antiche sono di quel periodo, hanno lasciato una traccia enorme, in Egitto. E invece oggi quando si parla di immigrati c’è quest’idea di dire “vediamo chi sono i veri egiziani, o i veri tedeschi”: ma non è importante dove nasci, ma dove decidi di costruire la tua casa».

 

Il romanzo finisce con le Crociate.
«Si pensa sempre a Gerusalemme ma i crociati arrivarono alle porte del Cairo, e invasero Alessandria con violenze terribili. Fu uno shock, anche perché in Egitto c’erano cristiani, i copti: anche gli invasori erano cristiani, quindi mi interessava raccontare come era possibile tenere separate le due idee di cristiani, quelli che erano da sempre in Egitto e quelli che venivano dall’Europa a fare la guerra. Anche per questo sono contenta che questo romanzo abbia vinto, perché parla di cose che succedono ancora, e proprio adesso, nel mondo».

 

Torniamo al siciliano…
«La prima parte della trilogia  è scritta dal suo punto di vista. Ci sono i ricordi della sua infanzia in Sicilia. E soprattutto il ricordo dei dolci:  lo “Halwan” del titolo rimanda alla persona che fa i dolci, nasce dal ricordo dei frutti e delle figure di pasta di mandorle della Sicilia. Perché anche questo per me è importante: noi guardiamo ai monumenti come segni lasciati dalla civiltà del passato, ma anche l’eredità di ricette di cucina, anche i dolci sono altrettanto importanti per la storia della cultura».