I classici e il presente
Teatro, Valeria Solarino e Stefania Rocca alle radici della democrazia
Arriva in scena, al Teatro antico di Taormina in occasione di Taobuk, “Atene contro Melo” di Tucidide. Con la firma di Alessandro Baricco, uno spettacolo di grande suggestione e attualità
La forza bruta. E la libertà. Il tempo della prepotenza. E il sacrificio di un piccolo popolo, deciso a resistere finché possibile: a soccombere con onore. A proteggere la sua identità.
C’è un episodio nella Guerra del Peloponneso che sembra scritto oggi: è l’aggressione da parte degli Ateniesi, nel 416 avanti Cristo, della popolazione dell’isola di Melo, nel Mar Egeo: pura dimostrazione di forza, spedizione punitiva esemplare per gli abitanti di tutte le altre isole. Una vicenda che solleva interrogativi cruciali, oggi come allora: che cos’è davvero la giustizia? Quanto è imperfetta la democrazia? E da quale idea di Occidente, da quanti e quali errori clamorosi proveniamo?
La vicenda è al centro di un dialogo letterario dello storico Tucidide intitolato “Atene contro Melo”, che sarà messo in scena al Teatro antico di Taormina il 23 giugno, in occasione di Taobuk Festival 2024: una rappresentazione con la firma di Alessandro Baricco, sul palco come voce narrante. E con le attrici Stefania Rocca e Valeria Solarino a incarnare rispettivamente le ragioni dei Melii e degli Ateniesi attraverso lo scambio verbale tra gli ambasciatori dei due schieramenti, prima dell’attacco. Tucidide descrive e riferisce questo incontro come se fosse stato presente: la lezione brutale degli Ateniesi sul diritto del più forte e la decisione degli abitanti di Melo, uniti dalla volontà di restare fedeli a sé stessi: alla loro “Identità”, che è proprio il tema scelto per l’edizione di quest’anno del Festival, festa della letteratura, delle arti e del pensiero diretto da Antonella Ferrara, con moltissimi ospiti internazionali: da Jon Fosse, a Jonathan Safran Foer, da Marina Abramović a Moses Pendleton (20-24 giugno).
Intorno alle due attrici, un suggestivo corpo di cento violoncellisti, i 100 Cellos diretti dai Maestri Enrico Melozzi e Giovanni Sollima, creerà «una fenditura tra le parole», dice lo stesso Sollima che ha composto le musiche: «Lunghi brani strumentali si alterneranno al puro canto e a momenti di ritmo e rito selvaggio. Il tutto per un organico di violoncelli il cui mondo sonoro non è solo quello di quattro corde e un arco, ma include voci, canto, urla, piedi, reattività».
Una messa in scena molto attesa, capace di suscitare rabbia, paura, speranza, riflessione su idee che, oggi più che mai, turbano l’Occidente. In un «rito della memoria con il pubblico», come lo chiama Baricco. Che lo eseguirà con la sua straordinaria capacità di raccontare e di evocare.
«La cosa che Alessandro Baricco dice sempre, e che io ho fatto mia anche quando interpreto altri ruoli, è di non essere impostati, di non recitare in modo evidente, ma di narrare», dice Stefania Rocca: «Pronunciare a voce alta le parole che vengono su in quel preciso momento, le più spontanee, non quelle che ha scritto qualcun altro. Questa è la sua forza e ciò che cercheremo di fare anche noi».
Valeria Solarino «Quando Baricco racconta ha un suo modo di comunicare che non è per niente costruito. Naturalmente, dietro c’è tanto studio. Ma il risultato è un racconto coinvolgente pur senza alcun artificio».
Stefania Rocca «Un’altra cosa che mi piace di Baricco è la capacità di trovare un parallelismo tra ciò che racconta e il momento in cui lo fa: è come se il tempo fosse annullato. Tu sei quasi avvolto dal racconto, come se il fatto avvenisse esattamente in quell’istante. La storia degli antichi Greci contro i Melii diventa perciò un evento che accade di nuovo e per la prima volta oggi, con i Greci davanti a tutti noi, mentre avanzano minacciosi».
Solarino, è lei a guidare gli Ateniesi. Gli invasori pronti ad assediare l’isola.
V. S. Sì, e devo confessare che inizialmente ho fatto un po’ di fatica a difendere la loro aggressività. Però alla fine ne ho compreso le ragioni e le porto avanti con convinzione. La cosa che colpisce di più dalle parole straordinarie di Tucidide è lo scontro tra due mondi così diversi: la società ateniese e quella spartana, alla quale i Melii erano decisamente più vicini. Due mondi totalmente lontani che non hanno alcuna possibilità di accordo. Lo scontro è inevitabile».
S. R: «A scuola pensavo agli Ateniesi come agli inventori della democrazia, decisamente preferibile all’oligarchia e alla forza militare degli Spartani. Oggi che mi ritrovo a interpretare i Melii, mi sembra che la Storia sia andata diversamente: sono gli Ateniesi qui a rappresentare la forza brutale e la difesa del potere a tutti i costi. E sono gli altri, semmai, a suggerire la giustizia. In fondo, ciò che gli Ateniesi hanno fatto costringendo i Melii alla resa è stato esportare la loro democrazia con la violenza: ma imporla con la forza è un controsenso».
V. S. «Sicuramente la democrazia ateniese era molto diversa dalla forma di governo che intendiamo noi oggi, però siamo pur sempre di fronte alle prime forme di democrazia. Sono d’accordo anch’io, la democrazia non si può imporre: un popolo deve arrivare da sé alla consapevolezza di chi esercita la sovranità. Però una cosa mi ha molto colpito interpretando questo ruolo, ed è una premessa fondamentale: gli Ateniesi non ritengono che si possa parlare di parità e di giustizia perché non si ritengono confrontabili con gli abitanti di Melo. I due popoli non sono uguali: ce n’è uno forte e un altro debole, che deve accettare le imposizioni dell’altro».
In realtà, i Melii vorrebbero soltanto rimanere indipendenti. Erano Dori, appartenevano allo stesso gruppo etnico degli Spartani, pur non facendo parte neppure della Lega del Peloponneso. Chiedevano solo di essere neutrali.
V. S. «E gli Ateniesi gli rispondono che per loro è meglio averli nemici che amici: se avessero concesso la neutralità si sarebbero dimostrati deboli. Invece, poiché è più importante non perdere l’immagine di dominatori, e non c’è alcuna possibilità di un dialogo alla pari, non possono dimostrarsi accondiscendenti con la loro richiesta».
S. R. «Giocano con la forza. Temono che accettando la neutralità dei Melii altri coloni possano avanzare la stessa richiesta».
V. S. «È un gioco di potere, e mantenere il potere è più importante di qualunque altra cosa».
Gli Ateniesi vogliono compiere un atto esemplare. Non gli interessa fornire una giustificazione morale dell’invasione. È la legge del più forte che deve prevalere, in nome della quale si può sacrificare il diritto. La nostra cultura deriva da lì?
S. R. «Noi arriviamo esattamente da lì. Baricco lo dice esplicitamente all’inizio dello spettacolo: la filosofia, l’arte, il teatro, la democrazia, la bellezza sono nati in Grecia. E l’ambasciatore ateniese aggiunge una frase significativa: non siamo noi ad aver stabilito queste regole, ma ci sono state tramandate e anche noi le tramanderemo allo stesso modo».
I classici ancora una volta ci costringono all’umiltà: a rivedere le certezze su cosa sia giusto e sbagliato, sul male e sul bene, la verità e la menzogna?
S. R. «Ci inducono a non pensare alla Storia come fatta di vittime da una parte e di carnefici dall’altra: è tutto molto complesso da giudicare. C’è un’altra frase che ci ha colpito, recitando. Quando i Melii dicono: “Noi proviamo a resistere, tanto perdiamo comunque”. E gli Ateniesi gli rispondono: “Ma non pensate neanche per un momento alla vostra Patria e a tutte le persone che manderete a morire, scegliendo la guerra?”. In quel momento i Melii non hanno esitazioni: “In realtà, in ogni caso arriverete voi e renderete tutti schiavi”, come poi in effetti succede. Mi colpisce molto questa responsabilità di cui si caricano con la loro decisione».
V. S. «Abbiamo ragionato su questo punto guardando all’attualità della Russia e dell’Ucraina. Dall’esterno uno può effettivamente dire: ma perché vi ostinate a combattere contro una potenza molto più forte! Cedete ed evitate altre morti, altra distruzione e miseria. Ma se pensiamo al significato della resistenza comprendiamo immediatamente il sacrificio».
La neutralità a cui aspirano i Melii finisce con l’essere una colpa: tutti i maschi vengono uccisi, donne e bambini deportati e schiavizzati.
S. R. «I Melii provano a non entrare in guerra. Ma sanno che Atene è l’impero, Sparta rappresenta le loro origini. Ecco perché vogliono restare equidistanti» .
V. S. «Per i Melii rimanere neutrali è a loro modo una condizione per salvarsi; per gli Ateniesi invece è inaccettabile. Cosa diversa è la neutralità rispetto a un conflitto, oggi. Se neutralità vuol dire tirarsi fuori, non prendere posizione, non esporsi di fronte alle ingiustizie, penso che non schierarsi sia una colpa».
S. R. «Secondo me dobbiamo fare una distinzione tra il sentirsi neutrali in un certo contesto e l’essere neutrali da un punto di vista etico. Cioè, se parliamo di valori, non condivido affatto il lavarsene le mani e non partecipare attivamente con una precisa posizione. Se invece parliamo di neutralità di fronte a un potere che si vuole imporre come è quello ateniese, posso capirlo».
Che idea di Occidente si ricava dalla rilettura di questo grande classico di Tucidide?
V. S. «Sicuramente un’idea di arroganza. Il fatto di essere portatori di democrazia e di certi valori ci ha resi arroganti. C’è un netto senso di superiorità rispetto a un mondo che deve ancora evolversi».
S. R. «Ripercorrendo la Storia, viene il dubbio di poter parlare onestamente di giustizia, di uguaglianza, di umanità: quando c’è uno palesemente più forte e un altro più debole è molto difficile muoversi su principi di giustizia».
Il tempo dei classici è il tempo presente, dicevamo. E i nodi di allora sono gli stessi in cui ci impigliamo oggi.
S. R. «È il bello del testo di Tucidide. Scritto volutamente non in forma di romanzo, di storia, ma di dialogo, quindi ideale per essere rappresentato a teatro».
V. S. «Un testo storico avrebbe dovuto ricostruire principalmente i fatti. Il dialogo restituisce, invece, tutta la complessità della vicenda, portando avanti le argomentazioni di uno e dell’altro. E lasciando allo spettatore il dubbio su chi abbia ragione».
E consegnando anche una consapevolezza amara: che di speranza non ce ne sia. Che siamo di fronte a un gioco dialettico. Oltre il quale i Melii saranno vittime di stupri e di saccheggi.
S. R. «I Meli finiscono malissimo, è vero. Però a me questa storia indica invece che la speranza è l’ultima a morire. Mi suggerisce l’idea di continuare a cercare sempre la libertà. E quindi anche la speranza di affidarti a qualcosa di divino, se la giustizia non è qui, sulla Terra. È una reazione profondamente umana».
Come vi state preparando all’ingresso nella meraviglia del teatro di Taormina?
V. S. «Tutti gli spettacoli di Baricco sono orchestrazioni. E qui letteralmente, con i violoncellisti che sembrano eserciti che avanzano. Cominciamo a parlare dopo una ventina di minuti dall’inizio, ma siamo già lì sin dal primo momento, singoli elementi di un’opera più grande».
S. R. «È proprio così, è come se gli ambasciatori si fossero portati dietro il loro esercito. E il loro rigore militare racconta anche la nostra presenza in scena, mentre l’esercito attende il delicato verdetto».