Ragazze e ragazzi ne sono troppo spesso intrappolati. Ora personaggi pubblici, libri e serie televisive portano allo scoperto. Per riconoscerle. E difendersi. «Viviamo in una società che considera le donne oggetti da controllare»

Un fine settimana: è questo il tempo medio che una serie Netflix impiega per diventare evento, un fenomeno anche solo temporaneo. Esce il venerdì mattina e già il lunedì successivo è ovunque, sui trend social e fra i consigli degli amici. È ciò che successo, a sorpresa, a “Baby Reindeer” ed è ciò che ha scatenato l’effetto “Ni una más”. Ma in comune hanno di più: le due serie condividono l’argomento, il racconto di una o più relazioni tossiche, ma non solo. Il loro debutto in streaming è avvenuto senza grandi campagne di marketing e, nonostante l’assenza di promozione martellante e costante, entrambe hanno raggiunto il vertice delle classifiche di visualizzazione, nei brevi momenti lasciati liberi dalla scalata di “Bridgerton”. Nel caso di “Ni una más” anche in 83 Paesi contemporaneamente. Qualcosa nel racconto di queste serie ha toccato un nervo scoperto, ha portato il pubblico, soprattutto più giovane, a ritrovarsi e riconoscersi nelle storie raccontate. Quelle degli amori sbagliati, asfissianti e difficili, che spesso si fatica ancora a definire violenti e dalla cui narrazione si è attratti, anche solo per capirli più a fondo. O per denunciarli.

 

In Italia “Ni una más” arriva in concomitanza con il libro di Miguel Sáez Carral da cui è tratto, dal titolo tradotto “Non una di più” (edito da Tre60). Un romanzo che la casa editrice ha fortemente voluto, prima ancora dell’annuncio della serie, intuendo il richiamo che la storia ha sull’attuale Generazione Alfa e sulle sorelle o i fratelli maggiori della Gen Z. La voce è quella di Alma, diciassettenne che all’ultimo anno di liceo subisce un abuso e, nel tentativo di affrontare e capire ciò che le è successo, scopre nella sua scuola una rete di violenza di genere ben più ampia, profonda e pericolosa. Le oltre trecento pagine sono vissute come un thriller, alla continua ricerca di un colpevole in un racconto che, fra diverse prospettive, ha un’unica costante: la dannosa tendenza a mettere sempre in dubbio, prima di tutto, la versione della vittima. I numeri, tuttavia, parlano chiaro. Solo in Italia, secondo un report di Save the Children di inizio anno, circa il 52 per cento di un campione di 800 ragazzi e ragazze, fra i 14 e i 18 anni, afferma di aver subito almeno una volta comportamenti violenti dai partner, anche solo verbali. Uno su cinque afferma di aver temuto per la propria sicurezza a causa di schiaffi, pugni, spinte o lancio di oggetti. E questo accade già solo nel periodo dell’adolescenza, come nella storia di Alma.

 

«Purtroppo senza un intervento diretto nelle scuole primarie e nelle scuole elementari, che miri a decostruire la stereotipizzazione di genere, su cui poi si basa la nascita della violenza maschile, anche le nuove generazioni, Zeta e Alfa, riproducono strutture violente di linguaggio e di pensiero», afferma Carlotta Vagnoli, autrice, attivista e content creator (in libreria con il romanzo “Animali notturni”, Einaudi). «Un caso emblematico sono i trend di TikTok. Se ne trovano tantissimi sulla gelosia idealizzata, sulle ragazze che chiedono ai compagni giovanissimi di essere più controllanti, più limitanti». E sono i contenuti che circolano tra i quattordicenni, mentre i trend dei ventenni o dei trentenni sono molto diversi. «Non credo però sia una situazione peggiore rispetto ai Millennials, alla Generazione X dei quarantenni o anche dei Baby Boomer. È solo più facile ricavare i dati oggi, grazie ai social, e i dati dimostrano che continuiamo a vedere replicata la società patriarcale senza avere strumenti per poterla decodificare». Si pensi solo a quante volte si parla di amore tossico intendendolo, in modo colloquiale, come qualcosa che si ferma prima della violenza. Invece, «tossicità coincide con violenza» e in questi casi l’amore non esiste. Esiste al contrario una forma di controllo, di ricatto emotivo e di limitazione dei modi di fare, di parlare, di vivere in società», prosegue Vagnoli.

 

Considerando una simile definizione, è chiaro che quando, fra diversi casi recenti, Fedez parla di una relazione tossica con l’ormai ex moglie Chiara Ferragni, sceglie di dare voce a qualcosa di molto specifico e non sta usando un’espressione vuota, ripetuta con leggerezza o privata del suo senso. «Una relazione in cui ci facevamo male a vicenda, senza voler dare colpa a nessuno», è quello che afferma alla telecamera dello YouTuber e streamer GrenBaud. Nel video di inizio giugno, in cui mostra il suo appartamento da uomo single, ripete anche più volte di aver trovato in quel nuovo spazio la libertà di fare cose che prima non gli erano concesse. Anche solo scegliere un pezzo di arredamento. Farebbero ugualmente rumore frasi del genere se la storia dei Ferragnez non fosse stata proposta, in modo voluto ed esplicito, come una favola, un modello (social) a tutti gli effetti? Alla domanda retorica rispondono già i 14 milioni di follower del rapper e imprenditore, o tornando ad altri modelli narrativi, gli 11 milioni di visualizzazioni di “Ni una más”. Perché numeri del genere hanno un grande potere, che va indirizzato. Basterebbe, fra queste, una sola persona alla volta che, riconoscendosi nelle stesse parole e nelle stesse sensazioni, inizi a indagare il significato di relazione tossica, e a lavorare su di sé per smantellarla.

 

È solo il tipo di relazione a poter diventare tossico, infatti, mai il sentimento in sé. Precisazione, questa, che metterà sempre d’accordo sia chi indaga le origini della tossicità nelle predisposizioni dell’inconscio e delle relazioni familiari (la psicoanalisi, dall’interno verso l’esterno), sia chi ne studia gli effetti a partire dal modello culturale dominante, spesso misogino o patriarcale. «Se non vivessimo, per esempio, in una società che pensa che le donne siano oggetti, strumenti e persone da controllare, avremmo un altro tipo di relazione amorosa da poter sviluppare», conclude Carlotta Vagnoli. «Non avremmo probabilmente neanche una monogamia così ossessionante e ossessiva, ma nuove modalità di linguaggio amoroso. Nuovi modelli relazionali».