Buio in sala
Fremont è un film che riesce a farci ridere e piangere
Un’emigrata afgana finisce a scrivere i messaggi nei biscottini cinesi. E cambia la vita di tanti sconosciuti. È l'ultimo lavoro di Babak Jalali
È una storia d’esilio e sradicamento ma è anche una storia d’amore e ritrovamento. Lenta e imprevedibile, come ogni bella storia, e con tutti i suoi micro colpi di scena al posto giusto, anche se non succede nulla di spettacolare. È uno di quei film in cui non sai mai se ridere o piangere e anche i personaggi sembrano sospesi fra opposti sentimenti, pur non muovendo quasi un muscolo del viso – e questa, vedere per credere, è una delle grandi qualità di “Fremont”, quarta e premiata regia di un iraniano cresciuto a Londra, Babak Jalali. Che ha girato il film tra San Francisco e Fremont, appunto, anonima cittadina della baia californiana dove vive una comunità di rifugiati afgani. Scrivendolo con l’italiana Carolina Cavalli (l’autrice di “Amanda”) e prendendo per protagonista una non-attrice afgana con una storia personale molto simile a quella del suo personaggio, Anaita Wali Zada. E una forza espressiva prodigiosa, specie alle nostre latitudini, fatta di grazia, orgoglio, concentrazione, apparente impassibilità.
Dimenticate realismo, naturalismo eccetera. Bianco e nero, formato quadrato, colonna sonora discreta e meravigliosa, “Fremont” può evocare il primo Jarmusch o magari Kaurismäki, ma è un film del tutto originale che lavora sulla facoltà più trascurata oggi dal cinema: la nostra immaginazione. Traduttrice per l’esercito Usa, Donya ha lasciato in patria i genitori, sa di essere stata molto fortunata a fuggire e che molti compatrioti la giudicano una traditrice. Ma questo retroterra non esclude l’umorismo, la speranza e un gusto molto orientale dell’assurdo che prima sconcerta e poi conquista.
Impiegata in una piccola fabbrica di biscotti della fortuna, Donya viene improvvisamente promossa dai padroni cinesi a autrice delle frasi poetico-augurali scritte sui bigliettini. Cosa che attraverso una serie imprevedibile di rimbalzi forse cambierà la sua vita, mentre lei non smette di cambiare quella degli altri. Dal vecchio compatriota che la esorta a cercarsi un amore, anziché passare le serate nel suo baretto, allo psicologo da cui riesce a farsi prendere in cura con un piccolo stratagemma (uno straordinario Gregg Turkington), che proprio grazie al sorriso enigmatico di Donya cambia metodo, passa dai manuali di psichiatria a “Zanna bianca”, insomma cura lei ma forse soprattutto se stesso.
Perché come questo film-terapia non smette di ricordarci, sorridendo, malgrado le distanze siamo tutti legati, in ogni momento. Il problema è accettarlo. E approfittarne.
AZIONE!
Non solo Miyazaki. L’altro genio dello Studio Ghibli si chiamava Isao Takahata e a luglio escono quattro suoi film tutti da vedere o rivedere. Si parte con “Pioggia di ricordi”, mai apparso su grande schermo. Seguono “Pom Poko” e “I miei vicini Yamada”. Chiude “Storia della Principessa splendente”, capolavoro assoluto.
E STOP
Incassi record, critiche osannanti. Dopo tante cartucce bagnate, “Inside Out 2” ci riporta finalmente all’età d’oro della Pixar, prima che la casa di John Lasseter fosse acquistata dalla Disney e il fondatore abilmente giubilato. Fra i nuovi personaggi però, accanto ad Ansia, spiccano Noia e Nostalgia... Solo un caso?