Un carisma indiscusso. Una carriera lunghissima. E la capacità di guardare sempre avanti, senza nostalgie. Da “Il portiere di notte” al fantascientifico “Dune”, una vita all’insegna della libertà. Dialogo a tutto campo con la grande attrice

«Scoraggiare gli artisti a parlare di politica è il primo modo per controllare le masse: gli artisti esaltano la gente, la svegliano, le fanno venire in mente delle idee, per certi governi tutto questo è inaccettabile. Ma non bisogna fare il loro gioco: occorre resistere, trovare un modo». A 78 anni Charlotte Rampling è più schietta che mai, forte di un fascino anche intellettuale mai convenzionale e di una carriera longeva che non conosce battute di arresto. In attesa di vederla in “Last Breath” di Costa Gavras e in “Father, Mother, Sister, Brother” di Jim Jarmusch, la incontriamo all’Ischia Film Festival, dove ha appena presentato il drammatico “Juniper - Un bicchiere di gin”, al cinema da ottobre. Nel film interpreta Ruth, una donna malata costretta su una sedia a rotelle, consapevole di stare per morire. Torna nella casa di famiglia per passare i suoi ultimi giorni di vita, scoprirà un legame inatteso con il nipote diciassettenne mai conosciuto prima.

 

Chi è la sua Ruth?
«Un’ex corrispondente che ha visto la guerra in faccia. Quando scopre che le resta poco da vivere prova a tornare in contatto con la sua umanità, con la famiglia che ha dovuto abbandonare: dietro la sua durezza c’è la voglia di dare un ultimo saluto alle persone care, compreso il nipote che non aveva mai conosciuto (e a cui tira un bicchiere dritto in testa, ndr). Ammiro queste persone che decidono di dedicare la loro vita a raccontare la guerra, specie le donne. Lei è una che con coraggio torna a casa per provare a fare ammenda, a ricucire gli strappi, sa di non avere più tempo. Ma spesso è proprio quando non si ha più scelta che si fanno le cose migliori».

 

Charlotte Rampling negli anni Settanta con Robert Mitchum

 

Anche il nuovo film di Costa Gavras tratterà il tema della fine della vita.
«Lui si è concentrato su come possiamo accompagnare le persone verso la fine nel miglior modo possibile. Abbiamo bisogno di morire con dignità, in serenità, liberi di decidere anche di voler fare a meno, ad esempio, di tutte quelle medicine che ci tengono vivi per forza. Non sto dicendo che chiunque guardi il film debba essere a favore dell’eutanasia o contro, dico che è importante confrontarsi con questo tema. Dobbiamo provare a capire cosa significhi morire e come poter essere aiutati a vivere quel momento. Non a caso il film viene da un regista che ha 92 anni, ma ha firmato un’opera importante su un tema difficile».

 

Trova che l’eutanasia sia un tabù al cinema?
«Lo è stato a lungo, finalmente cineasti come Gavras ma anche François Ozon lo stanno rovesciando. Al di là del cinema, deve essere un argomento presente sul tavolo di discussione dei potenti in Parlamento.

 

Una scena del film “Juniper”

 

Tornando al film "Juniper", una sua battuta resta impressa: “La guerra è uno spreco”.
«Ma certo, uno spreco di tutto, non solo di vite umane. Lo vediamo nelle immagini tutti i giorni, è una follia totale. Continuano a prendere la gente e tirarla dentro al fuoco, penso a tutti quei giovani uomini in Russia e in Ucraina, ne muoiono un migliaio al giorno, e a Gaza lo stesso. È inaccettabile. Anziché continuare a sprecare soldi in macchine e armi, perché i governi non li danno ai più poveri, a chi ne ha bisogno?».

 

Ritiene che il cinema serva ancora a smuovere le coscienze?
«Lo farà sempre, finché ci saranno autori in grado di raccontare la difficoltà della gente nei diversi Paesi del mondo e di affrontare i temi più sensibili. Tutte le culture hanno cose interessanti di cui parlare, raccontare storie non significa imporle, né spiegarle, ma porre di fronte a chi guarda uno specchio di umanità su cui riflettere. Si impara a provare più empatia, più compassione, più connessione con gli altri».

 

È da sempre un’attrice molto libera. Trova che oggi gli artisti lo siano altrettanto?
«La storia evolve e involve di continuo. Certe regole sono state spazzate via anche nelle nostre democrazie, tanto che c’è da chiedersi cosa sia realmente oggi la democrazia. Come mai stia andando troppo a destra, troppo a sinistra o troppo al centro. Perché non lascino la gente libera di esprimersi, anziché trattarla come massa da controllare, reprimere, riempire di paure».

 

Nel film “Dune” con Timothée Chalamet

 

Come si inverte questo stato di cose?
«Il potere del male è ancora molto forte in tutto il mondo. Ma la storia ci insegna che nei periodi più oscuri emerge sempre qualcuno che crede nel cambiamento ed è pronto a realizzarlo. Poi verrà qualcuno che distruggerà anche quel cambiamento, e così via. Non se ne esce, si resiste. Si diventa più forti. Ci si oppone fortemente alla guerra, ad esempio. Davanti a realtà che non possiamo controllare né cambiare, dobbiamo tentare altro, trovare nuovi modi per farcela».

 

È consapevole di essere un modello per tante donne, che guardano a lei come icona di femminilità non convenzionale?
«Io sono come sono. Ho un grande contatto con la mia parte emotiva e istintiva, mi permetto di essere governata più dalla creatività che dalla razionalità, non sto troppo tempo a pensare ad essere un modello. Non ho mai preteso di piacere a tutti, non ho mai amato seguire le mode, conformarmi ai pensieri altrui o a stili di vita che non trovavo affini a me. Tuttora detesto chi mi dice come dovrei pensare. Certo, alla mia epoca era più facile essere liberi, negli anni Settanta si viveva in un altro modo».

 

Ne prova nostalgia?
«Per niente. Non sono una che pensa al passato, so bene che non può tornare, quindi vado avanti, guardando sempre e solo al futuro».

 

Quando riguarda gli scatti iconici che le fece Helmut Newton che cosa prova?
«Li trovo bellissimi. Helmut scattava donne forti, le faceva emergere ed esaltare più di ogni altro al mondo. Lui e Peter Lindbergh sono i miei fotografi preferiti».

 

Isabelle Huppert e Meryl Streep sostengono che invecchiare dia più libertà di qualsiasi altra cosa. Che ne pensa?
«Non posso che concordare, non solo perché sono colleghe che stimo profondamente. La premessa è che bisogna essere fortunati ad arrivare in salute a una certa età. Per il resto basta apparire in modo dignitoso, non cavalco l’ondata di chi si cambia i connotati per non invecchiare. Io non ho mai rifatto nulla, per dire».

 

Come mai?
«Non ne ho mai sentito il bisogno. E credo che chi ricorra ai ritocchi non ne abbia veramente bisogno, è che non accetta il passare del tempo e pensa che, togliendo qualche ruga, si possa tornare indietro. Io avrei paura a vivere in un loop temporale in cui non si invecchia e non si va avanti mai. Mi vengono i brividi solo a pensarci».

 

Quali sono oggi le sue paure?
«Non me lo chiedo mai. Se iniziassi a domandarmelo seriamente si scoperchierebbe un vaso di Pandora di emotività, traumi, ferite, e mi verrebbe voglia di suicidarmi. So cos’è la paura, quella vera, interna, che non dipende da qualcosa in particolare, ma da tutto quello che ci è successo nella vita. Ognuno ha i suoi traumi, come tanti anch’io ho combattuto a lungo chiedendomi il “perché” di diverse cose. Di fatto ho vissuto la mia vita come volevo perché sapevo che, pur non avendo voglia di morire, accadrà come a tutti lo stesso. Allora meglio balzare sulla vita che farsi aggredire dai ricordi e restarne vittima. Ecco una cosa che non sono mai stata in tutta la mia vita: una vittima».

 

Neanche della discriminazione? Eppure ha mosso i primi passi in un mondo del cinema maschile e maschilista.
«Non ho mai permesso a nessuno di discriminarmi. Non mi è mai capitato che mi molestassero, non ho mai consentito certe cose, sono sempre stata in grado di tirarmene fuori dicendo chiaro: “Non voglio saperne nulla, a mai più rivederci”. Poi è vero che il cinema prima era governato soprattutto dagli uomini, ma quando ho iniziato ho lavorato con registi omosessuali, il mio rapporto con il maschile è sempre stato bellissimo».

 

Un ritratto dell'attrice Charlotte Rampling

 

Se incontrasse oggi la Charlotte che muoveva i primi passi cosa le direbbe?
«Ricordati che tutto ciò che fai ti tornerà indietro, nel bene e nel male».

 

Le è tornato?
«Non lo so, ma so che l’ho attraversato».

 

Come guarda alle nuove generazioni?
«Con curiosità e simpatia, specie quando mi fermano per dirmi quanto hanno amato il mio personaggio in “Dune” e “Dune 2”. Non me l’aspettavo, ma è bello sentirmi connessa con generazioni diverse per due film che non sono puro intrattenimento, ma densi di filosofia. La speranza è che vadano poi a recuperare magari i miei lavori precedenti, che riscoprano autori come Luchino Visconti e Liliana Cavani».

 

In “Juniper” si confronta con un attore di ventitrè anni, George Ferrier, che interpreta suo nipote. Un ragazzo solitario, disagiato, che imparerà suo malgrado a prendersi cura della nonna, perdonandole anche il debole dell’alcolismo.
«Mi piace lavorare con i giovani. Siamo attori, più dell’età conta la capacità di restituire sullo schermo le emozioni».

 

A differenza di Ruth, lei non ha mai trascurato la sua famiglia.
«Io però ho passato la vita a raccontare storie fuori da scenari di guerra. Ho il lusso di poter mettere un piede fuori dalla storia che sto raccontando per tornare alla mia vita di sempre. Dai miei figli, a cui ho provato a garantire la presenza: se sto con loro sono solo con loro, oggi come ieri».

 

Esiste un modo per invecchiare bene?
«Accettando ciò che siamo. Restando curiosi. Ricordando che siamo tutti connessi e che  bisogna mostrare compassione persino verso i più orribili e arroganti. In fondo, è per questo che ho scelto il mio mestiere: per entrare nel mondo emotivo degli altri».