Una mostra raccoglie gli autoritratti di un'artista palestinese trapiantata in Arizona. Una serie di fotografie che smantellano in un colpo solo orientalismo e patriarcato

Non è proprio dietro l’angolo, non è facile organizzarsi per andarci entro il 15 agosto, data di chiusura. Però la mostra di Sama Alshaibi alla Bassam Freiha Art Foundation di Abu Dhabi merita una menzione e una visita virtuale. Anche per non perdere l’occasione di vedere dal vero i lavori di questa fotografa iracheno-palestinese che insegna fotografia all’università di Tucson, Arizona, quando ce ne sarà occasione: e sicuramente ci sarà.

 

Perché la serie intitolata “Carry over”, di cui questa esposizione seleziona una ventina di immagini, lavora sull’intreccio tra orientalismo e patriarcato che influenza l’immagine femminile. La selezione affianca i grandi quadri a olio che sono i protagonisti della mostra “Echoes of the Orient”, nell’edificio principale della luminosa sede progettata dall’architetta emiratina Rasha Gebran. Entrambe sono curate da Michaela Watrelot, responsabile della fondazione, che accosta nel distretto culturale dell’isola Al Saadyiaat la collezione di un imprenditore e mecenate di origine libanese alle iconiche sedi di grandi musei occidentali, dal Louvre al Guggenheim.

 

Alshaibi si ispira a fotografie vere, di pionieri della fotografia orientalista che hanno immortalato le “portatrici d’acqua” della tradizione mediterranea. Una tradizione che riguarda anche l’Italia: le foto delle donne arabe che ispirano Alshaibi non sono lontane dai ritratti di giovani ciociare con le anfore sulla testa tanto amati dai pittori che calavano a Roma e dintorni dal Nordeuropa a fine Ottocento.

 

Senza contare che l’immagine ha radici molto più lontane: arriva fino alle cariatidi del Partenone, un richiamo così evidente da rimanere inosservato, se non lo ponesse in evidenza il lavoro della scultrice americana Virginia Maksymowicz: che alla “Lightness of bearing” di queste donne, alla leggerezza con cui portano carichi maestosi, e alla «resilienza simbolica e alla forza delle figure femminili nell’arte e nell’architettura» ha dedicato anni di lavoro e diverse mostre (l’ultima all’Art Gallery and Museum di Rowan, New Jersey).

 

Le portatrici di Alshaibi, rievocate in autoritratti scattati e stampati con le stesse tecniche dei fotografi di fine Ottocento, aggiungono all’immagine uno scarto straniante: perché ai pesi tradizionali si sostituiscono pile di pentole, vassoi pieni di bottiglie, oggetti dalle forme incomprensibili che evocano pesi sovrumani o, al contrario, la leggerezza impalpabile delle filigrane.

 

Al centro dello scatto c’è lei, Alshaibi: donna di oggi che somiglia come una goccia d’acqua alle sue antenate, e che dal suo doppio esilio - dalla Palestina all’Iraq agli Stati Uniti - ripropone con finta sottomissione l’abaya e il velo che il patriarcato islamico e l’orientalismo occidentale si aspettano da una donna araba. Un gioco che lega denuncia e ironia, per immagini che restano a lungo nello sguardo di chi le ha viste.