Letteratura

Peter Cameron: «Viviamo in un mondo oscuro, violento e incomprensibile. Scrivo per abitare altre vite»

di Mattia Insolia   16 agosto 2024

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Lo scrittore statunitense Peter Cameron

Lo scrittore statunitense di “Un giorno questo dolore ti sarà utile”: “Quando ero ragazzo, gay, in provincia, pensavo di essere condannato alla solitudine. Oggi so che altro non è che una nuvola passeggera”

Autore di sette romanzi e diverse raccolte di racconti, Peter Cameron è tra gli scrittori statunitensi più apprezzati al mondo e soprattutto dal pubblico italiano. Con “Un giorno questo dolore ti sarà utile” (Adelphi, 2007), molto spesso accostato a “Il giovane Holden” di Salinger e trasposto per il cinema, Cameron si è fatto conoscere pure dai lettori più giovani che, anche attraverso TikTok, lo hanno portato in cima alle classifiche. Vincitore del Pen-Faulkner, tra i premi più prestigiosi per la narrativa, Cameron ha la capacità, con la sua scrittura leggera e brillante, di dipingere, sia con i suoi racconti e sia anche con i suoi romanzi, tipi umani sfaccettati e densi, tipi specifici e in cui, però, possiamo felicemente ritrovarci. Lo incontriamo tramite uno schermo, risponde circondato da alberi rigogliosi e piante in fiore, alle sue spalle colline verdi e a gironzolargli attorno i suoi cani, cui è molto legato.

 

«Vivo a New York da più di quarant’anni, ma passo lunghi periodi nel Vermont. Dacché ho la sensazione che il mondo stia peggiorando, che stia divenendo sempre più oscuro, violento e incomprensibile, stare a contatto con la natura mi dà pace. Adesso sono nella mia casa nel Vermont, perciò ho tanto verde attorno. Vengo spesso qui anche perché ai miei cani piace, mi sembra siano più felici».

 

Perché non lascia definitivamente New York, allora?

«New York per me è stata importantissima, soprattutto negli anni della giovinezza, e non saprei immaginarmi in una città diversa. Non qui negli Stati Uniti, almeno. Ogni tanto penso che sarebbe bello trasferirmi in Europa, magari a Milano, a Londra, ma non sto mica ringiovanendo e qui c’è la mia intera vita: la mia famiglia, il mio partner, i miei cani e il mio lavoro. No, non ce la farei. New York mi ha dato tantissimo, e credo abbia ancora molto da offrirmi».

 

 

Nonostante l’affezione per New York, la città è entrata di rado nelle sue storie.

«Perché io ho sempre scritto per evadere da me stesso, per uscire dalla mia vita e crearne un’altra in cui abitare nei periodi della stesura: non ho mai voluto scrivere di me. Sia quando leggo sia quando scrivo, non desidero altro che andare al di là di chi sono, della mia esistenza. Allontanarmi da Peter Cameron, diventare altro: scrivere per me è bello, e importante, anche per questo».

 

 

Perché?

«Non mi trovo interessante, ecco tutto: non ho mai visto alcun potenziale narrativo nella mia vita. E poi io la mia vita la vivo e la capisco già così, scriverla sarebbe ridondante».

 

 

Ha sempre avvertito questo desiderio di evadere da sé?

«Ho iniziato a sentirlo da bambino, quando vivevo nel New Jersey con la mia famiglia. Vengo da una piccola città di provincia, non troppo lontana da New York, ma molto diversa. Infanzia e adolescenza lì sono state tranquille, non posso lamentarmi. Nonostante, difatti, sia stato un ragazzino infelice, ho avuto una famiglia amorevole e dolce. Crescere con dei genitori così buoni, essere in sintonia con sorelle e un fratello, è stato bello e importante. Il desiderio di evadere da me stesso, però, ho cominciato a sentirlo allora: da piccolo. Per fortuna, però, quello è stato anche il periodo in cui ho scoperto i libri e il teatro: mezzi attraverso cui evadere, essere altro».

 

 

Come li ha scoperti?

«Grazie ai miei genitori. Mi compravano tanti romanzi e spesso mi portavano a teatro. Poi, crescendo, ho cominciato a farlo da solo. Andavo in biblioteca e in libreria, dove passavo un mucchio di tempo o a leggere o a scegliere i libri da portare a casa. Andavo a teatro, prendevo il treno, da solo, e guardavo gli spettacoli. È stato un periodo di grandi scoperte, quello».

 

Ha detto di essere stato un teenager infelice, però.

«Ero un adolescente gay in una cittadina ai margini del Paese: soffrivo una solitudine molto forte e sì, ero infelice. Mi vergognavo di ciò che ero e credevo che mi sarei sentito così per sempre, di essere senza speranza e che il futuro per me non riservasse niente di bello. Per questo ho iniziato a desiderare di travasare me stesso in vite diverse dalla mia, per questo mi sono avvicinato e legato alla letteratura e al teatro».

 

E cosa le suggerivano i libri che leggeva e gli spettacoli che guardava?

«Che non ero senza speranza come credevo, che anch’io un giorno sarei stato felice, che, al di là del posto in cui vivevo c’erano altre possibilità, opportunità e nuove forme da abitare. Dovevo solo andar via, trasferirmi. E così ho fatto: sono andato a New York. La città mi ha accolto e mi ha dato le opportunità di cui avevo bisogno».

 

Dunque, l’infelicità di cui parla era dovuta alla sua sessualità?

«Mi sentivo diverso e mi sentivo così anche per la mia sessualità, ma non solo per questo».

 

E poi?

«E poi le cose sono piano piano migliorate, anche se ciclicamente mi sono sentito preda di una certa infelicità, ma credo sia fisiologico, fa parte di ognuno di noi. Trasferitomi a New York, si è fatto tutto più semplice e, pur non avendo mai fatto coming out, vivevo pure la mia sessualità in modo sereno».

 

Non ha mai fatto coming out?

«Non ne ho mai sentito l’esigenza e, soprattutto, l’idea non mi è mai piaciuta granché. Le mie due sorelle e mio fratello sono etero e non hanno mai dovuto fare niente del genere. Ecco, a me l’idea che una persona sia etero fino a prova contraria non piace. Fare coming out mi sembrava come ammettere che ci fosse un problema di cui dovessi informare la mia famiglia e, naturalmente, non era così. Semplicemente, ho lasciato che la gente che avevo vicino lo scoprisse nel tempo. Oggi penso che forse è stata pure un po’ codardia, non volevo affrontare la discussione con i miei genitori».

 

Quando poi l’hanno scoperto com’è andata?

«Mia madre ha detto che lo sapeva da sempre, da quando avevo tre anni o giù di lì. E, in tutta onestà, trovo sia una cosa interessante: lo sapeva, o così dice, ma non ha mai fatto niente per rendermi la vita più semplice, sotto questo punto di vista. Non è mai venuta da me a dire qualcosa che potesse facilitare il mio percorso. A casa lo sapevano tutti, ripetono oggi, eppure hanno pensato fosse meglio ignorare la faccenda e basta».

 

Sono andati d’accordo, negli anni, con i suoi partner?

«Sì, molto, e spesso sono persino diventati amici - i miei partner e le mie sorelle, soprattutto. La disapprovazione che ho avvertito crescendo - perché c’era e la sentivo; una riprova, in fondo, del fatto che in casa lo sapessero già tutti - da parte dei miei genitori era dovuta alla loro preoccupazione circa la mia vita: la generazione cui appartengono i miei, difatti, era convinta che essere gay potesse significar solo vivere delle vite da infelici - una cosa stupida. Col tempo, poi, si sono tranquillizzati. Hanno visto, capito, che non è così e hanno accettato la realtà delle cose».

 

A proposito delle sue sorelle e di suo fratello, che rapporto ha con loro?

«Siamo sempre andati d’accordo, ancora oggi siamo legati. Sono tutti sposati e hanno tutti dei figli, ma ci vediamo raramente, purtroppo, perché viviamo in parti diverse del Paese. Da piccoli, però, passavamo molto tempo assieme. Mio fratello è ancora la prima persona a leggere quello che scrivo, la prima a cui mostro i miei lavori».

 

È affezionato particolarmente a uno dei suoi libri?

«No, proprio no».

 

E che cosa rappresenta per lei il suo libro più famoso, “Un giorno questo dolore ti sarà utile”?

«L’ho scritto a New York ambientandolo, quindi, nella città in cui vivevo e negli anni che vivevo: in presa diretta. È stata una bella esperienza. Non credevo avrebbe avuto tutto il successo che è arrivato e non ero pronto, mi ha un po’ sommerso».

 

James, il protagonista, da dove viene?

«Da dove vengono tutti i miei protagonisti, ma è un luogo che non so identificare. Farlo, però, capire che genere di posto sia, non mi interessa neanche. Funziona, e mi basta questo».

 

È davvero convinto che un giorno questo dolore ci sarà utile?

«Quel titolo non è stato ideato per diventare una regola universale. Certe esperienze non fanno che danneggiarci, altre possono trasformarsi in insegnamenti e in quei casi sì che il dolore ci è utile».

 

Per lei il dolore è stato più danno o insegnante?

«Un insegnante. Se sono chi sono è anche perché ho sofferto, e io sono molto contento e soddisfatto della persona che sono».

 

Sofferenza inutile oppure insegnante: ma siamo noi a renderla l’una o l’altra cosa o dipende dalla natura in sé del dolore?

«Credo dipenda da entrambi i fattori: ognuno risponde agli stimoli della vita a modo suo, e ciascuna sofferenza è diversa dalle altre. Anche in questo caso, non c’è una regola. Ed è pure per questo che scrivo, per indagare come le persone rispondono al dolore».

 

Per lei la scrittura è uno strumento di comprensione della vita?

«Uno strumento di esplorazione, più che altro. Per tornare a quello che dicevo all’inizio, per me scrivere è abitare altre vite, uscire da me stesso e guardare oltre. Quando scrivo, pur essendo sempre solo, non sono mai solo».

 

Le piace la solitudine del lavoro di scrittore?

«Sto molto bene da solo. Al di là del periodo in cui da adolescente ho patito il mio sentirmi diverso, la solitudine non mi è mai pesata. Anzi, mi piace. La apprezzo».

 

La differenza tra la solitudine di cui ha fatto esperienza quand’era un ragazzo nel New Jersey e quella di oggi, da adulto? Perché questa le piace?

«Dipende tutto dalle prospettive future. Quand’ero un bambino, gay in una piccola città di provincia, ero convinto che la mia vita sarebbe stata per sempre quella, che mai avrei avuto la possibilità di vivere più liberamente, felicemente, mentre oggi quando soffro la solitudine so che altro non è che una nuvola passeggera. Sapere che il dolore di oggi è, per certi versi, molto simile a quello che abbiamo già sperimentato e superato in passato è uno strumento fondamentale per vivere bene il presente e il futuro».

 

Quindi?

«Quindi mai dimenticare il futuro».