Il lungo addio ai concerti passa per una serie di otto live all’Arena di Verona. Viaggio con il grande cantautore attraverso ricordi e personaggi. “Lo diceva mio padre: un pugile deve scendere dal ring quando è vincente”

Il tempo del viaggio, del ritorno e della nostalgia. «Da tre giorni si è alzato uno scirocco molto forte. Stamattina sembrava una giornata di dicembre, con un cielo scuro, grigio, compatto. Mi ha dato un certo turbamento», riflette Claudio Baglioni dalla sua villa a Lampedusa, l’isola dove torna – come Ulisse a Itaca - per cercare il vento, il mare, l’aria che ricorda il respiro dell’uomo, “Respiro” (2002) come il film di Emanuele Crialese ambientato su questi scogli. Per indicare il fiato gli isolani utilizzano di solito un’espressione, un saluto amichevole: “O’ Scià”, come il festival musicale, durato dieci anni (fino al 2012), ideato dal cantautore per sensibilizzare il pubblico sul tema dei migranti. Frammenti che si ricompongono mentre Baglioni prepara “A tutto cuore plus ultra”, la serie di otto concerti (19-28 settembre, direzione artistica e regia teatrale di Giuliano Peparini) all’Arena di Verona, che segna il suo congedo dall’anfiteatro scaligero. Il secondo capitolo dei mille giorni del “giro d’onore” che sta accompagnando il suo lungo addio alla scena live.

Claudio Baglioni, una nuova tappa del suo congedo. È emozionato? 

«Certo. Ho avuto bisogno di dettare le regole al tempo prima che il tempo lo facesse con me. Preferisco giocare a carte scoperte, prendendo esempio da mio padre che cercava sempre di migliorarsi. Ama va la boxe, diceva sempre: “Un pugile deve scendere dal ring quando è ancora vincente, non può trascinarsi, prendere botte e finire suonato”. Anche perché per me, essendo suonatore, finire suonato sarebbe paradossale». 

 

Come è strutturato lo show? 

«Si tratta di uno spettacolo imponente, con cento elementi, di sicuro il più potente che abbia mai messo in scena. Voglio precisare che non si tratta di musica d’avanguardia, ma popolare. Un sogno parcheggiato a lungo, con illustri predecessori: Richard Wagner pensava si potessero mettere insieme musica, danza, circo, in una sorta di teatro totale». 

 

All’Arena si esibì la prima volta mezzo secolo fa. Cosa ricorda? 

«Non era neanche un concerto personale, ma il Festivalbar. Al tempo della contestazione ai concerti giravano volantini che inneggiavano all’interruzione degli spettacoli al grido di “la musica non si paga”. Avevo fatto tre o quattro dischi di successo ma il confronto con il pubblico resta sempre un mistero. Ricordo che prima di me sul palco era salito Charles Aznavour: non capì perché la gente fischiava così tanto e andò via (ride). Entrai subito dopo, mentre imprecava in francese, lui che aveva dedicato una canzone a Verona! Anche io sono arrivato sul palco tra “buuh” e fischi. Il pubblico era abituato alle canzoni in playback, invece cantai dal vivo. Doveva essere una catastrofe e invece fui accolto bene». Cosa cantò? «Di sicuro “Poster”. Dopo aver provato e riprovato ho avuto il dubbio della tonalità, una cosa inverosimile. Un po’ come il di lemma di Amleto, “essere o non essere”». 

 

Ora immagina per sé un futuro lontano dalla musica? 

«Penso di no, non so fare molte altre cose (ride). Se avrò ancora il tempo e le capacità, mi rivolgerò verso qualche sperimentazione ma non musica di avanguardia. La mia materia restano le canzoni, ne ho scritte 350. Sono macchinette spazio-tempo micidiali, musica da fanteria, perfino quelle brutte. Avendo fatto studi classici per quasi tutta la vita, in futuro mi piacerebbe cercare qualcosa di diverso dalla forma canzone. Ho cominciato a scrivere racconti e opere musicali». 

 

Facciamo un salto indietro. Ha trascorso buona parte dell’infanzia in campagna, che famiglia era la sua? 

«Vengo da una famiglia di contadini umbri. Mia madre era del 1918 e mio padre del 1919, era il suo toy boy (ride). Dopo la guerra il Paese era in grande difficoltà. Pensarono di andar via dalla campagna e trasferirsi a Roma. Si sposarono e con 60mila lire prestate dai parenti cercarono una casa in affitto. Sembra una storia di migrazione di oggi, quando una famiglia punta su qualcuno per regalargli una speranza di vita migliore. In città la vita non era così diversa, abbiamo sempre abitato là dove finivano i palazzi e cominciavano i prati». 

 

I suoi genitori che mestiere facevano? 

«Mio padre era sottoufficiale dei carabinieri, mia madre lavorava in una sartoria. Ero un figlio unico con l’invidia per le famiglie più numerose. Mia madre mi diceva che i bambini si compravano e noi non avevamo questa possibilità. Mettevo i soldi da parte, ma ogni volta che raggiungevo una certa cifra mia madre diceva che non bastava perché i bambini erano cresciuti di prezzo». 

 

È vero che suo padre scriveva poesie? 

«Sì. Voleva saperne di più, non voleva essere ignorante, manipolabile da parte di chi aveva studiato». 

 

E la sua prima volta sul palco come andò? 

«Sessant’anni fa esatti salivo su un palchetto montato in una piazza di una periferia romana, Centocelle, senza sapere cosa sarebbe accaduto. Canticchiai una canzone imparata da Sanremo di quell’anno, “Ogni volta” di Paul Anka». 

 

Che adolescente era? 

«Terribilmente impacciato, imbranato, timido. Romantico. Anche se una ragazza poco più grande di me, di cui ero solo amico, mi spiegò che il concetto di romantico andava inteso in modo più ampio: non vuol dire zuccheroso ma avventuroso. E quel significato nuovo riscattò l’aggettivo». Indossava occhialoni giganti, oggi si direbbe un nerd. «All’epoca si diceva quattrocchi e mezzo naso, perché gli occhiali troncavano mezzo naso. Che nel mio caso era un vantaggio, considerate le dimensioni». 

 

E i suoi amici dell’epoca? 

«Al bar avevano tutti soprannomi da supereroi o buffi. Alcuni legati al mondo degli animali, tipicamente romani: il sorcio, il volpe, il mastino. E poi i professionali: il galleggiante per l’idraulico, il diplomatico per il pasticciere». 

 

Qual era il suo soprannome? 

«Mi chiamavano Agonia perché mi vestivo di nero, avevo letto gli scritti di Juliette Gréco e degli esistenzialisti francesi. Era il mio look personalissimo: maglione nero a collo alto, occhialoni con la montatura pesante, grandissimi insuccessi sentimentali. Una catastrofe». 

 

Lei ha scritto alcune tra le canzoni d’amore più celebri della storia della musica italiana. “Questo piccolo grande amore” (1972), “E tu come stai?” (1978), mentre “La vita è adesso” (1985), con oltre quattro milioni di copie, è l’album più venduto di sempre in Italia. È prodigo di parole d’amore anche nella vita privata? 

«No, né nell’amicizia né negli affetti. Se dovevo conquistare qualcuna scrivevo poesie o messaggi sui fogliettini, come mio padre. Con le parole sono sempre stato poco capace, di una timidezza devastante che non ho mai guarito». 

 

Nel 1968 aveva diciassette anni. Più tardi frequentò la facoltà di Architettura a Valle Giulia, teatro della nota battaglia tra studenti universitari e polizia. Partecipava a cortei o assemblee? 

«Arrivai a Valle Giulia l’anno dopo la battaglia tra studenti e polizia. E dopo le parole di Pier Paolo Pasolini, che aveva rimbrottato gli studenti mettendosi dalla parte dei poliziotti. Ho partecipato a cortei, ma quando polizia e carabinieri si schieravano davanti agli studenti, quasi sempre vedevo mio padre dall’altra parte. Alle assemblee spesso facevo da moderatore: davo la parola all’uno o all’altro ma alla fine venivo odiato da tutte le fazioni (ride)». 

 

Come Lucio Battisti, anche lei a volte è stato considerato di destra. Le dà fastidio? 

«Sì, durò un paio d’anni. In verità di Battisti lo dicono tuttora. A me invece è successa una cosa curiosa: più che a destra, mi collocarono nel grande mondo democratico cristiano, perché al tempo del referendum sul divorzio in una manifestazione a sostegno della famiglia comparve il mio nome, senza che avessi dato alcuna adesione. E allora si creò una sorta di leggenda e fui messo da parte rispetto ai cantautori impegnati. “Organici al movimento”, si diceva allora». 

 

Se non avesse fatto il cantautore che avrebbe fatto? Vero che da ragazzo voleva farsi prete? 

«Vero. Nella periferia di Centocelle la chiesa e il suo oratorio erano un avamposto di salvezza per tanti ragazzi che potevano prendere una cattiva strada. A forza di frequentare l’oratorio mi prese un certo interesse nei confronti dell’idea religiosa, tant’è vero che ho fatto persino il catechista e il chierichetto ma per una sola messa, perché sbagliai a scampanellare durante il rito e il prete non mi volle più. Un giorno andai da mia madre per dirle che avevo sentito la vocazione. Lei era una donna molto devota ma si disse contraria. Mio padre invece era più laico, amava il pugilato. Ma non sono diventato neanche pugile». 

 

Per dieci anni, con il festival O’ Scià, lei si è impegnato per sensibilizzare il pubblico sul tema dei migranti. È servito a qual cosa?

 «Lampedusa è un posto con un bel mare, dove i turisti vanno a fare le vacanze senza rendersi conto che a poca distanza ci sono vite molto complicate e si consumano tragedie. Noi abbiamo fatto del nostro meglio ma in generale non ho molta fiducia nei confronti degli artisti che si impegnano per le cause del mondo. In molti casi si tratta di un impegno estemporaneo». 

 

Parliamo di Sanremo. Lei è stato direttore artistico per due edizioni, nel 2018 e nel 2019. La seconda fu caratterizzata dalla polemica tra lei e Salvini sul tema dei migranti. È difficile fare il direttore artistico del Festival? 

«Le polemiche in Italia sono sport nazionale. E Sanremo è uno sfogatoio molto interessante, l’unica settimana in cui tutti diventano conoscitori di musica. Il direttore artistico, che io soprannominai subito “dittatore artistico”, diventa uno degli uomini più potenti d’Italia. Tutti ti fanno richieste, hai la sensazione di avere un grande potere, che a chi fa il mio mestiere non capita quasi mai, neanche se hai uno stadio pieno». 

 

Se oggi un giovane come lei salisse sul palco di Sanremo avrebbe successo? 

«Sono stato fortunato ad avere un bell’inizio molto presto, a 17 anni. Oggi la musica serve da svago, è gregaria a qualcos’altro. Ai concerti è più importante vedersi più che vedere lo spettacolo. Un album intero di canzoni, per l’ascoltatore medio, è troppo pesante, si va canzone per canzone come negli anni Sessanta ma con meno freschezza: non veniamo da una guerra, il nostro divertimento è non pensare». 

 

Il più grande rimpianto della sua vita? 

«Ho sacrificato alcune canzoni meno conosciute che ritengo migliori di altre. Non le ho difese abbastanza». 

 

Quali?

 «Stamattina strimpellavo la chitarra, il tempo era brutto. Ho suonato la canzone “Quei due”, che non faccio quasi mai. È una delle cose migliori che abbia scritto».