Libri
Nadia Terranova, genogrammi e altri misteri
"Quello che so di te", il nuovo romanzo della scrittrice messinese, ha per protagonista la bisnonna Venera. Un lavoro di scavo dentro una storia di silenzi. E l'occasione per un dialogo su arte, maternità, scrittura autobiografica. Colloquio con Nadia Terranova e Lisa Ginzburg
C'è, nella maternità, uno strano potere. L’ha scritto Virginia Woolf, alludendo al contraddittorio, affascinante tempo di chi porta in grembo una vita. Lo ribadisce la scrittrice Nadia Terranova che torna in libreria, il 14 gennaio, con un romanzo nel quale l’esperienza complessa e trasformativa della maternità ispira, punteggia, rende densa e fa compiere alla sua scrittura un balzo d’intensità. “Quello che so di te”, pubblicato da Ugo Guanda Editore, diventa così ben più che un’emozionante storia privata che la scrittrice risveglia attingendo a quel ribollente calderone della Mitologia di famiglia, ma un romanzo su maternità e creatività. «Il romanzo di una scrittrice pienamente donna e madre», nota in questa conversazione intorno al libro la scrittrice Lisa Ginzburg, da sempre attenta al tema dei legami parentali. E alla cura, fatta di tempo e di maturità, delle nostre ferite originarie (“Per amore”, “Cara Pace”, “Una piuma nascosta”).
LISA GINZBURG: «Quasi sette anni fa è uscito “Addio fantasmi”, ma a quanto pare quell’addio non era un vero addio. Qui riapre ad altri fantasmi, a una bisnonna con un posto speciale nei suoi sogni».
NADIA TERRANOVA: «È vero. “Addio fantasmi” mi aveva dato la possibilità di dialogare con il passato in un modo che intercettava il presente. In questi anni ho capito molte cose rispetto alla libertà che si può avere nella scrittura di far entrare i fantasmi a parlare. E se prima era stato un corpo a corpo, in questo libro la coprotagonista irrompe dal sogno alla realtà in un attimo, senza alcuna mia resistenza».
L. G.: «Venera, internata a 38 anni al Mandalari, il manicomio di Messina. “Incontrandoci dentro una visione”, scrive: da scrittrice ha cioè creato la visione entro la quale vi siete incontrate?
N. T.: «Sì, è stato un movimento che mi ha accerchiato da più parti, perché ho cominciato a sognare questa donna sapendo di lei pochissimo, ne avevo solo intercettato il nome da bambina: Venera era la nonna di mia madre, delle mie zie, ma era difficile saperne di più, nessuno la raccontava. Veniva nominata e il suo nome era accompagnato da risolini o da scuotimenti di testa. Questi sogni, però, erano precisi e ricorrenti, mettevano insieme non detti e mi chiarivano molte cose. Con la nascita di mia figlia ho capito che tutti gli indizi su di lei, per esempio il cognome che in questo libro non compare ma era quello della protagonista di “Addio fantasmi”, premevano perché io la considerassi. Perché le dessi un posto nella mia vita».
SABINA MINARDI: «È il richiamo della Mitologia Familiare: ma che cos’è questo universo così ingombrante, importante, zeppo di storie. Che, dopo aver alimentato miriadi di non-detti, chiede con urgenza un confronto, una resa dei conti?».
L. G.: «Terranova parla di genogramma, facendo riferimento alle teorie di Anne Schützenberger, per dire che tutti siamo il nostro passato, abbiamo intuizioni transgenerazionali. Mi colpisce però l'imperativo di partenza, quando diventa madre: “Dentro quel preciso nulla, nell’isolamento dell’ospedale in cui ho appena partorito, capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire”. Vuol dire che il genogramma ci condiziona, ma desidera anche che diventiamo noi stessi?».
N. T.: «È così. La Mitologia Familiare equivale per me al coro greco. Venera non coincide con una singola voce ma con l’insieme di tutte quelle voci che ci portiamo dietro: “in famiglia si dice che”».
S. M.: «Messaggi che si trasmettono da una generazione all’altra, anche coi silenzi. Perché il genogramma “non è fatto solo di documenti e intuizioni, ma anche di relazioni sotterranee e allargate”, che coinvolgono parenti e amici. Siamo nella terra dell’autobiografia, patrimonio privato che è sempre più cifra del romanzo contemporaneo. “Vendesi io”: Treccani ha dedicato al tema il volume “Un anno di storie” curato da Paolo Di Paolo, Tamara Baris e Fiorella Favino. Ma perché trionfa l’autobiografia? Gli scrittori non hanno più voglia di inventare?».
N. T.: «Io credo che l’autofinzione sia molto interessante quando la si può utilizzare come chiave di invenzione, più che come ricostruzione chirurgica di cose veramente accadute. Ho lottato con l’autofinzione, prima di scrivere questo libro. Poi mi sono accorta che era il modo più adatto per raccontare questa storia, e ho deciso che avrei inventato attraverso la verità. Ci sono parti in cui esplicitamente, mettendo a nudo anche l’ossatura del libro, ricostruisco la vita di Venera e faccio ipotesi. L’altro grande protagonista del libro è l'idea di verità: un’idea continuamente messa in gioco e sabotata. Se l'autofinzione è un modo per far convergere proiezioni, immagini, persino l’io narrante d’invenzione di Venera, allora mi interessa molto».
L. G.: «Penso che lo statuto dell'immaginazione sia realmente un po' in crisi, spero che torneremo a inventare di più. Ma nello stesso tempo - e questo bellissimo libro lo dimostra - si può inventare attraverso l’autofinzione. D’altra parte, nel generale disorientamento in cui ci troviamo c'è bisogno di individuare il proprio punto di vista restando vicini alla propria biografia, e solo da lì far volare la fantasia: è come se non potessimo spiccare il volo da soli, in questo momento».
S. M.: «Allora ci ancoriamo alla realtà solida della famiglia. Ma pescare in essa è anche una esposizione rischiosa. Terranova, quando si è sentita più messa a nudo?».
N. T.: «Dalla prima parola all'ultima. Il prologo -dove dico che non posso più permettermi di impazzire - l’avevo scritto per me, come la radice del libro. Invece, da quella pagina è nato tutto il resto e quindi ho da subito costeggiato un mondo che contemporaneamente mi era molto familiare ma precluso, visti i tanti silenzi e omissioni. Era stranissimo scrivere, perché continuavo ad avere i consueti rapporti familiari e contemporaneamente passavo metà della mia vita in un mondo che gli altri ignoravano. E ogni tanto mi scappava fuori qualcosa su quello che scoprivo, soprattutto dopo aver trovato la cartella clinica della mia bisnonna, e mi guardavano come se venissi da un altro mondo: la mia quotidianità era per il resto della mia famiglia archeologia».
L.G.: «Mi pare che in questo libro ci siano due trazioni opposte: c’è la nascita, ma c’è subito il passato come minaccia di ciò che potrebbe accadere, facendo perdere l’equilibrio della nuova vita. In queste due trazioni arriva la scrittura. Trovo che questa riflessione sullo scrivere quando mettiamo al mondo renda il libro molto importante: è un romanzo con una malinconia dentro, che però trova una strada per creare. E mi ha colpito. Ma il dilemma è esplicito: “Come potrà una madre diventare artista? Come potrà un’artista diventare madre? Ho covato la questione per un tempo interminabile…finché quell’assillo l’ho lanciato via, lontano. E mi sono liberata”. È una malinconia molto contemporanea, ed è importante che lei l’abbia espressa».
N. T.: «Quella frase viene da Rachel Cusk che se la pone in “Coventry” a proposito di Louise Bourgeois. Non credo che i padri artisti si facciano la stessa domanda: io l’ho sentita molto aleggiare intorno a me. Mi sono chiesta come fare, come lavorare sulla scrittura, perché qualcosa la maternità cambia: vedo qualcosa in più, ma di qualcosa faccio a meno. Perché c'è una persona che io non voglio distruggere, neanche sulla carta: si distruggono i padri, in fondo anche le madri, ma non si possono distruggere i figli neanche sulla pagina».
S. M.: «Scrivere è appiccare incendi, bombardare città, stanare i prigionieri. I figli invece si proteggono, si strappano dalle rovine, si portano via dai roghi”, scrive. E ancora: “Scrivere dopo una figlia significa esporti al doppio della fatica”».
L. G.: «Non è affatto semplice essere abitati dall’ossessione di un libro e, insieme, dal quotidiano dell'essere madre. È stata la stessa cosa anche per me: sentivo l’urgenza di scrivere - che vuol dire inventare, esplorare macerie, essere abitati anche da un senso di morte profondo - e avevo a che fare con l’allattamento, con i primi passi, con la crescita di una bambina. Sei di fronte a Eros e a Thanatos contemporaneamente: alla vita, nella sua esplosione più bella, e a un lavoro di scavo entro di te. E quanto diremo ai figli di quello che ci sta animando ma che sentiamo potrebbe danneggiarli? C'è qualcosa che schermiamo perché non passi tutto. Scrivere questa storia è stato anche un modo per proteggere sua figlia?».
N. T.: «Sì, questo è il suo scudo, senza dubbio. Ho chiuso il libro e ho pensato a quando mia figlia lo leggerà. Poi lo interpreterà come vorrà, non abbiamo mai il controllo delle reazioni degli altri, l’ho imparato dai libri precedenti. Però ho la sensazione di aver fatto il mio dovere, di aver dato parole a un pezzo di storia che rischiava di restare nebulosa e faticosa. Io ho dovuto ricostruire tutto: la malattia di mio padre; il fatto che la mia bisnonna fosse stata in manicomio… Questo carico a lei l’ho alleggerito».
L. G.: «Se dovessi scrivere una fascetta del libro direi: “Anna Maria Ortese incontra Jodorowsky”. Mi ha fatto venire in mente “Il Cardillo addolorato”. E rispetto a questi personaggi impalpabili che però dominano - qui il coro greco, nel libro precedente i tarocchi - le chiedo: la Mitologia Familiare ha una precisa funzione strutturale?».
N. T.: «Sì, sicuramente: appare come appaiono i fantasmi, le coincidenze, i simboli. Da piccola ero immersa in un mondo magico, diventando adulta l’ho messo da parte. Poi ho studiato Filosofia, mi sono appassionata ai Greci. Nel mito, che oggi declino con consapevolezza, ho trovato la prosecuzione delle fiabe d’infanzia».
S. M.: «Nel romanzo sottolinea spesso quanto gli uomini abbiano sempre preso decisioni per le donne. Il granatiere, il bisnonno, porta il peso di aver fatto rinchiudere in manicomio questa giovane moglie scantàta, scattiàta, strèusa».
N. T.: «La Mitologia Familiare lo trattava come un eroe. Il primo istinto, ricostruendo, era di ritenerlo l’orco; presto però sono arrivata a una verità più sfumata: di un uomo dalla natura buona, costretto a interrogarsi sulla cosa migliore per la moglie e per la società. Il crinale tra il rinchiudere e il far curare era sottilissimo per un maschio chiamato a provvedere e a riparare».
L. G.: «E arriviamo al presente, con un maschile nuovo, moderno, rappresentato da suo marito, al quale consegna la storia. Lui la prende in carico senza sottrarsi, con gioia anzi. È una grande liberazione leggere di femminilità in questi termini e di maternità non solo come abnegazione felice, ma anche come peso. C’è una pagina indimenticabile nel libro "La moglie" di Jhumpa Lahiri: una donna lascia il figlio, esce. E respira: la scrittrice trova il coraggio di raccontare quel preciso sollievo. Credo che lei abbia sviscerato il tema con grande delicatezza: c’è tanto amore, ma anche la consapevolezza di tutta l’ambivalenza del materno. “Quello che so di te” mette da parte quello che restava dell’adolescenza ed è il libro maturo di una donna, di una madre».
N. T.: «Grazie di questa chiarezza. Un passaggio è certamente avvenuto, nella scrittura e nei conflitti che mi hanno attraversata. Non pensavo che, lasciando andare la parte di prima, avrei acquistato così tanto di più di ciò che ho perso. E ho fatto ridere Venera: raccontandola, ho restituito a una donna silenziosa, incupita, che terrorizzava le nipoti, i suoi attimi di felicità».