Il 27 gennaio si apre la stagione della Filarmonica con la Settima sinfonia del compositore austriaco

Riccardo Chailly, qual è il suo auspicio per il 2025 musicale? «Sarebbe interessante suggerire alle istituzioni musicali di aprirsi in maniera continuativa alla musica contemporanea». La musica cammina in equilibrio tra la certezza della tradizione e lo slancio del nuovo. Parliamo di questo, ma tocchiamo anche altri territori, nella nostra intervista con il direttore musicale della Scala di Milano, da dieci anni in carica. Lo scorso 7 dicembre ha aperto la stagione lirica sul podio con “La Forza del destino” di Verdi, il 27 gennaio aprirà quella della Filarmonica con la Settima sinfonia di Mahler. «Una sinfonia molto complessa», spiega Chailly: «Ho avuto il privilegio di studiare in Olanda le partiture di Mahler del Maestro Mengelberg, che era anche suo amico personale. Sulla prima pagina dello Scherzo della Settima sinfonia scrive: “Paura, angoscia, terrore. Danza funebre, la morte suona il violino invitando alla danza”. Tutto questo va creato col suono dei musicisti che compongono l’orchestra. È una sinfonia che segna il Novecento in maniera prepotente.

 

Visto che lo stesso Mahler fino a qualche decennio fa era una rarità nei programmi dei concerti italiani, vogliamo tornare sull’evoluzione del repertorio?

 

«Trovo che nel mondo della classica italiana ci sia poca attenzione alla musica contemporanea, anche nei confronti di autori che io considero definitivi, per esempio Luciano Berio, Pierre Boulez, Wolfgang Rihm».

 

Perché succede: la musica contemporanea non ha conquistato il cuore del pubblico?

 

«Perchè non ha avuto frequenti occasioni d’ascolto. Berio, Boulez, Rihm sono autori molto complessi, hanno un linguaggio che merita un avvicinamento progressivo e un ascolto ripetuto. La musica contemporanea vive un momento difficile, c’è timore da parte delle istituzioni e forse dei musicisti stessi di non avere sufficiente partecipazione di pubblico».

 

Sono passati 100 anni dalla nascita di Luciano Berio, che lei conosceva bene. Cosa voleva suscitare Berio nel pubblico?

 

«Stupore e anche divertimento. Era un grande intellettuale che non ha mai abbandonato il suo senso dell’umorismo. Per lui il concerto sinfonico doveva essere uno stimolo intellettuale, anche sorprendente, anche provocatorio».

 

Nel 2016 lei è succeduto a Claudio Abbado alla guida dell’Orchestra del Festival di Lucerna. Abbado è per lei un punto di riferimento?

 

«Lo è stato fin da quando ero ragazzo. Poi mi ha chiamato ad essere suo assistente ai concerti sinfonici della Scala».

 

Era il 1972, lei aveva soltanto 19 anni. Come avvenne quella proposta?

 

«Fu un momento di sbalordimento totale. Ci incontrammo in un ufficio vicino alla sovrintendenza, allora affidata a Paolo Grassi. Fu un incontro rapido ma di grande contenuto per me. Naturalmente accettai e quell’incarico fu una palestra di apprendimento come forse nessun’altra».

 

Tra Verdi e Puccini quale è il compositore più vicino al gusto di oggi?

 

«Puccini non sarebbe mai esistito senza Verdi. Tutto quello che il pubblico ama di Puccini è il risultato di un passaggio di consegne involontario e inevitabile tra l’uno e l’altro. Puccini ha un linguaggio musicale più contemporaneo al nostro e i suoi argomenti sono più ​vicini agli esseri umani comuni. Verdi tocca un mondo più lontano e soprattutto nelle prime opere adegua la sua musica a testi lievemente arcaici che potrebbero allontanare al primo ascolto. Eppure “La forza del destino”, che ho appena diretto alla Scala, ha avuto una partecipazione di pubblico travolgente. La grandezza e la forza della musica vincono su tutto».

 

Qual è secondo lei la differenza tra musica di intrattenimento e musica di cultura?

 

«Sono due cose molto diverse, ma l’una non può escludere l’altra. Non aiuta l’intellettualismo nella musica. Può essere una profonda compagnia, una fonte di gioia, di divertimento, di sorriso, di convivialità, così come può essere un momento di introspezione, di necessità di solitudine e a volte di poter lenire il dolore».

 

Qual è la parte più divertente della sua professione?

 

«Lo studio. Non è fatica, è euforia dello spirito, gioia di dare tempo alla conoscenza di ciò che amo e non conosco».

 

Cosa sta studiando in questo periodo?

 

«Sto studiando composizioni quasi sconosciute di Scriabin, per esempio. C’è poi sempre un impegno prossimo: a febbraio con l’orchestra del Concertgebouw di Amsterdam faremo la Nona sinfonia di Bruckner con il finale ricostruito dagli schizzi dell’autore. Sulla mia scrivania ho anche “La conquista della felicità” di Bertrand Russell. Seguire il pensiero di Russell mi aiuta a fuggire dal pericolo degli automatismi della quotidianità».

 

Immagino che stia anche approfondendo “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Shostakovich, che dirigerà alla prossima inaugurazione della Scala.

 

«Sì, questo è un punto d’orgoglio. Il titolo rappresenta un capolavoro della musica russa che fu però ostacolato dal potere politico di quegli anni. Dare a quest’opera del Novecento la visibilità e l’internazionalità del 7 dicembre alla Scala, a distanza di 90 anni dalla prima esecuzione, mi sembra un opportuno riconoscimento del suo valore culturale».